Anno | 2013 |
Genere | Documentario |
Produzione | Italia |
Durata | 42 minuti |
Regia di | Stefano Martone, Mario F. Martone |
MYmonetro | 3,00 su 1 recensioni tra critica, pubblico e dizionari. |
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Ultimo aggiornamento mercoledì 3 giugno 2015
Un documentario su tre donne e sulla costruzione di cinque grandi dighe nella Patagonia cilena.
CONSIGLIATO SÌ
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«Io, ancorché multinazionale, darei l'intera Montedison per una lucciola». Così scriveva Pier Paolo Pasolini nel 1975, in un'epoca in cui le storture del sistema capitalistico erano già evidenti. Poco o nulla è mutato da allora e il suo monito resta ancora inascoltato. Come ci insegna la vicenda delle dighe cilene, pressoché sconosciuta in Italia, eppure legata a una delle più importanti multinazionali del nostro paese. Una storia di sfruttamento ambientale ben documentata nel film diretto da Stefano e Mario Martone. Una storia che inizia nel 1981, quando il dittatore Pinochet privatizza la quasi totalità delle risorse idriche presenti sul territorio cileno. Nei trent'anni successivi, i diritti per lo sfruttamento dell'acqua vengono ceduti a imprese nazionali e multinazionali interessate a produrre energia idroelettrica.
Oggi sulla Patagonia cilena incombe il progetto "HidroAysén", che prevede la costruzione di cinque grandi dighe sui fiumi Pascua e Baker, nella regione di Aysèn. Muovendosi tra passato e presente, il documentario ricostruisce questi avvenimenti attraverso le lotte di donne che provano a resistere al gigante idroelettrico che sta per calpestare la loro terra, imponendo un'idea di progresso che a loro non appartiene. C'è la speaker radiofonica che prova a spiegare alle comunità indigene l'impatto ambientale ed economico che il progetto avrebbe sul loro territorio e c'è la contadina che ha gli antenati sepolti nella stessa terra in cui è nata e nella quale intende morire. Le dighe di "HidroAysén" la priverebbero della propria casa e del campo che le rende i frutti seminati con amore, gli unici mezzi che le permettono la sopravvivenza. La zona interessata dal progetto è una delle più povere al mondo. L'unica cosa che i contadini posseggono è la terra, la stessa che la compagnia Endesa Cile (inizialmente statale, poi privatizzata e ora controllata dall'italiana Enel) vuole sottrarre loro. Il progetto prevede, infatti, l'inondazione di circa 6.000 ettari di terreno pianeggiante, mettendo a rischio sia l'ecosistema, tra i pochi ancora intatto, sia la sopravvivenza delle comunità Mapuche, che da più di cinquecento anni popolano questi territori. Tanto più che l'energia idroelettrica prodotta non andrebbe a soddisfare il fabbisogno della popolazione locale, ma servirebbe principalmente le miniere attive nel nord del paese, venendo trasportata per più di 2.000 km tramite linee ad alta tensione che attraverserebbero gran parte del Cile, tra cui quattro parchi nazionali e otto riserve forestali. Impattanti sarebbero anche le conseguenze climatiche e pure l'indotto economico derivante dal turismo ne risentirebbe.
Il documentario, oltre a ricostruire le tappe principali di questa vicenda, scandite dalle proteste delle organizzazioni ambientaliste che affiancano gli abitanti, represse con violenza, mette ben in evidenza la contrapposizione tra le pratiche predatorie di stampo coloniale tipiche del capitalismo multinazionale nei paesi del Sud del mondo e l'atteggiamento di cura amorevole e rispettosa che le comunità locali hanno nei confronti della terra. Una terra rigogliosa, circondata da vette imponenti, serafica nel suo fluire naturale, così lontano dalla frenesia cittadina. Una terra incantevole, così come ce la rende la bella fotografia di Stefano Martone. Una terra che invoca rispetto.