ilaria pasqua
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domenica 9 febbraio 2014
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gran ritorno
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È l’inizio degli anni ’60, il periodo musicale che ha preparato il terreno all’avvento di Bob Dylan.
Llewyn Davis è uno dei tanti giovani che ha tentato, senza fortuna. Uno di quei tanti giovani che cantavano folk nei locali fumosi di New York, prima del grande boom, alla ricerca di una strada per sfondare, una strada diversa da quella dei propri genitori.
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È l’inizio degli anni ’60, il periodo musicale che ha preparato il terreno all’avvento di Bob Dylan.
Llewyn Davis è uno dei tanti giovani che ha tentato, senza fortuna. Uno di quei tanti giovani che cantavano folk nei locali fumosi di New York, prima del grande boom, alla ricerca di una strada per sfondare, una strada diversa da quella dei propri genitori. Vive di piccoli ingaggi e dell'ospitalità della gente del Greenwich Village, che gli permette di dormire sul divano, gente con cui ha un rapporto conflittuale, più di odio che di amore, ma Llewyn sembra odiare tutti. E d'altronde nessuno sembra amare lui.
Llewyn Davis è un uomo dall’anima malinconica, ha perso il suo partner e cerca in ogni modo di vivere della sua musica, senza arrendersi. Vive di espedienti, senza soldi, senza vestiti, senza casa, quasi un vagabondo che con sé non ha altro che la sua chitarra e tanta voglia di fare, o almeno di provarci, ma le cose non vanno, forse perché lui è un musicista puro e testardo, si rifiuta di scendere a compromessi come ha fatto il suo amico Jim, interpretato da Justin Timberlake. O forse perché è perseguitato da una sorta di sfortuna che in qualche modo sembra andarsi a cercare. Con quel suo sguardo carico di amarezza e di malinconia, il carattere brusco ma una consapevole bravura, non riesce a fare il grande salto perché ha un rapporto conflittuale con il successo, e con tutte le persone che ci girano intorno. Ha un rapporto conflittuale persino con se stesso, votato com'è all’autodistruzione.
È una delusione dopo l’altra, un continuo viaggio di fallimenti, come se insistesse nel girare a vuoto, rinunciando a cogliere l’attimo, senza aspettarsi davvero di farcela, senza aspettarsi niente, quasi quasi tentato dalla via di fuga estrema presa dal suo più caro amico. E l’immagine di lui con la giacchetta di velluto in pieno inverno, quel gatto senza nome in braccio e l’aria ancora più da perdente, da combattente sconfitto, rimane fissa in mente, quasi come un promemoria. Non si dimentica.
Come è difficile dimenticare la scena più intensa del film, quella in cui Davis canterà una ballata struggente che ci emozionerà tutti di fronte a un produttore che poi sentenzierà freddamente: con questa roba non si fanno soldi.
Con la loro solita ironia imbevuta di cinismo i fratelli Coen ci spiattellano in faccia la verità su come va l’arte, e soprattutto su come va l’industria, quel mondo che sembra quasi astratto, mosso solo dal denaro e da ciò che può produrne.
Il protagonista è interpretato da Oscar Isaac, un attore teatrale al suo primo ruolo importante al cinema, molto bravo, colpisce nel segno il suo sguardo sofferto e quell’aria un po’ rude, abbattuta, dimessa, assente. Oltre a lui il film è ricco di personaggi di contorno molto efficaci, come quelli interpretati da John Goodman e Carey Mulligan che lasciano in un certo senso Davis disarmato, senza parole, personaggi del mondo musicale con cui non riesce a trovare punti di contatto.
Ho trovato poi in particolare magnifica la fotografia, e infatti non a caso c’è stata una candidatura all’Oscar, l’unica a dire il vero.
Se devo trovare un difetto forse è l’assenza di ritmo, ma ha un senso perché va adattandosi alla passività del protagonista, ai suoi fallimenti, al suo vagare spento, all’inerzia sconsolata. Personalmente l’ho seguito senza mai annoiarmi, anche grazie forse alla limitata lunghezza che in questi casi giova molto.
Si accumula frustrazione durante la visione, fino a un finale che non ha assolutamente niente di consolatorio. Quando ci si aspetta lo scatto narrativo ci si accorge che viene chiuso semplicemente un cerchio. È un'odissea che non va da nessuna parte.
Si esce dalla sala con un blocco di cemento sullo stomaco ma con le note della musica folk nella mente.
A proposito di Davis è in conclusione una celebrazione della musica, una celebrazione del cinema. Una ballata folk circolare che si morde la coda.
Poetico, struggente, distruttivo, profondamente malinconico. I fratelli Coen sono finalmente tornati.
Recensione pubblicata originariamente su: www.ilariapasqua.net
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(di antonio montefalcone)
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vanessa zarastro
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lunedì 10 febbraio 2014
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vintage film
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Vedendo questo film sembra di tornare indietro e di rivivere l’inizio di quegli anni ’60 anche nelle accezioni più dolorose a livello personale. Nella poetica figura di Davis - ispirata in parte alla vita del folk singerDave Van Ronk -si riscontra il desiderio del rifiuto del modello sociale imposto e la voglia di cambiamento che non decollano mai rimanendo incastrati in una spirale di iterazione di non scelte; un circolo vizioso senza uscita come lo stesso film sottolinea nel proporre la stessa scena in apertura e in chiusura. Una splendida fotografia evidenzia i “non-luoghi” urbani esempi dei primi elementi di consumismo come le stazioni di servizio nel middle-of-nowhere.
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Vedendo questo film sembra di tornare indietro e di rivivere l’inizio di quegli anni ’60 anche nelle accezioni più dolorose a livello personale. Nella poetica figura di Davis - ispirata in parte alla vita del folk singerDave Van Ronk -si riscontra il desiderio del rifiuto del modello sociale imposto e la voglia di cambiamento che non decollano mai rimanendo incastrati in una spirale di iterazione di non scelte; un circolo vizioso senza uscita come lo stesso film sottolinea nel proporre la stessa scena in apertura e in chiusura. Una splendida fotografia evidenzia i “non-luoghi” urbani esempi dei primi elementi di consumismo come le stazioni di servizio nel middle-of-nowhere. Negli interni le prospettive sono spesso con punti di vista dal basso dove le luci radenti evidenziano la polvere – fantastica è la scena della sua audizione solitaria per Grossman a Chicago. New York è rappresentata solo da interni perfino nella metropolitana dove attraverso gli occhi del gatto si leggono le stazioni corrispondenti alle strade che ci raccontano il percorso tra la borghese uptown Manhattan al bohémienVillage. Bravi gli attori, molto belle le canzoni e divertenti i personaggi tutti tratteggiati in modo caricaturale senza arrivare al grottesco. Un film che, pur non avendo una storia, una trama, non annoia un solo secondo – forse un po’ per intenditori (molti riferimenti musicali sono per adepti). Bravo ai fratelli Coen!!!
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(di barone di firenze)
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claudiofedele93
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venerdì 21 marzo 2014
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una lenta e struggente ballata folk per i coen!
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Potrà suonare strano, ma nella storia del cinema assistere a registi che vogliono raccontare storie di musicisti famosi, fare loro omaggi o omaggiare la musica stessa non è poi così improbabile; dell’amore verso quest’ultima forma d’arte ci aveva già deliziato Martin Scorsese con i suoi documentari tempo addietro, l’ultimo dei quali dedicato all’immortale George Harrison.
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Potrà suonare strano, ma nella storia del cinema assistere a registi che vogliono raccontare storie di musicisti famosi, fare loro omaggi o omaggiare la musica stessa non è poi così improbabile; dell’amore verso quest’ultima forma d’arte ci aveva già deliziato Martin Scorsese con i suoi documentari tempo addietro, l’ultimo dei quali dedicato all’immortale George Harrison. I fratelli Coen non sono da meno, lasciati dunque gli aridi deserti e le praterie americane viste ne Il Grinta, i due hanno deciso di mettere le mani su una storia che parla principalmente della musica folk, prendendo come base la biografia del cantante Dave Van Rock, amico di Bob Dylan e con lui esponente del genere. Il cast, ancora una volta comprende nomi noti ed altri poco più che sconosciuti, tra cui quello del protagonista Oscar Isaac nei panni di Lewyn Davis a cui è stato affidato per la prima volta il ruolo del protagonista. I Coen avranno saputo firmare un altro lavoro degno del loro nome?
New York 1961. Lewyn Davis è un cantante folk del Greenwich Village, ma non ha molto successo e per questo si vede costretto a passare il suo tempo tra uno studio e l’altro sperando di poter essere preso da case discografiche indipendenti pur di sbarcare il lunario. A complicare il tutto c’è anche Jean Berkey (Carey Mulligan) rimasta incinta dopo essere andata a letto con lui. Davis capisce di aver sempre più responsabilità sulle spalle e che non può passare il resto della sua vita a chiedere ospitalità per una notte o due ai suoi colleghi che per pietà lo assecondano, ma sopratutto comprende di dover trovare al più presto una soluzione ed un lavoro, poiché la musica sembra non ripagarlo come avrebbe mai immaginato.
Joel ed Ethan Coen regalano al pubblico uno dei loro personaggi meglio riusciti (ed usciti dalla loro mente) degli ultimi anni, un perdente scapestrato che cerca in continuazione di afferrare una delle tante opportunità che la vita gli offre ma che puntualmente viene rispedito al punto di partenza, nella desolata e malinconica solitudine e povertà in cui sguazzano i tanti cantanti folk (e non) che fanno soldi suonando in angusti e sporchi locali. Ecco dunque un altro anti-eroe, un uomo che vive le proprio giornate senza pensare al futuro né a costruirsi un qualcosa di concreto con una famiglia e degli affetti. Ecco lo schiaffo morale ed il messaggio malinconico che i due registi danno agli artisti e hai sognatori di oggi, ammonendo tutti noi che persino anche quando un grande talento si nasconde dietro ad una chitarra quest’ultimo non diverrà mai famoso se dietro non vengono visti i soldi ed i profitti. L’arte oltre ad essere tale in questo mondo, ieri proprio come ed ancor più oggi, viene coltivata non in base alla creatività ma solo se considerata terreno fertile su cui fare copiosi investimenti. Una storia ricca di malinconia, quella di Davis che viene narrata con passione, nostalgia, grande attenzione per i dettagli da due dei talenti migliori del nostro tempo i quali, vedere per credere, son arrivati ad un livello di raffinatezza tecnica inimmaginabile e che ancora dopo più di trent’anni riescono a sorprendere anche per le loro storie ed il modo in cui le raccontano.
Le disavventure di Oscar Isaac, bravo ed intenso nel suo primo importante ruolo, sono accompagnate sempre da un desiderio di fuga che ogni volta viene stroncato, da dei sogni che si infrangono su gli eventi della vita che scorrono davanti ai suoi occhi a cui non può opporsi. Se di fatto questi due cineasti col tempo ci hanno insegnato qualcosa dal loro cinema è che con le disgrazie talvolta non è più di tanto preferibile combatterle inutilmente quanto conviverci ed anche in tal caso, in un modo o nell’altro, la loro visione nei riguardi della vita e dell’uomo non si discosta dagli altri lungometraggi visti in precedenza.
Inside Llewin Davis rappresenta, dunque, un opera molto più intima del precedente Il Grinta, un lavoro che ricorda molto più il semi sconosciuto A Serious Man e le storie amare a cui ci hanno ormai abituato i Coen, ma al contrario di altre loro pellicole apparentemente più leggere qui il ritmo è contenuto ed i tempi scanditi con più parsimonia, come se i due fratelli avessero consapevolezza della storia che hanno creato e che possedevano tra le loro mani e avessero deciso di raccontarla come una lenta ballata folk, proprio come una di quelle che suona Davis all’inizio ed alla fine del film.
A Proposito di Davis per noi non è assolutamente il miglior film dei fratelli Coen, sebbene rimanga ad ogni modo un ottimo lavoro ben interpretato e diretto in modo magistrale; tuttavia ormai è bene mettere in chiaro una cosa, ovvero che il loro cinema si avvia ad essere una forma d’espressione tanto interessante quanto intima che è estremamente difficile catalogarlo o classificarlo a priori. I due filmaker hanno ormai fatto propria la settima arte e dopo tanti anni di eccellente lavoro non solo si sentono in dovere di raccontare storie che godono di una profonda intimità, ma anche di omaggiare altri classici del cinema come Colazione da Tiffany; ma Ethan e Joel hanno sempre dato un doppio significato, una doppia lettura a tutto ciò che hanno diretto e scritto e così avviene anche stavolta poiché il palese omaggio al gatto di Tiffany risulta avere anche un valore simbolico poiché il felino dal manto rosso qui alla fine raffigura l’opposto del protagonista e questo lo capiamo a cominciare dal nome affidatogli dai padroni: Ulisse, l’eroe greco che dopo tante avventure riesce a tornare a casa, mentre Davis continua ad oscillare in balia del destino, perso tra una delusione ed una speranza. Prima che Bob Dylan raggiungesse la fama con la sua musica, in un inverno freddo realizzato in modo egregio grazie a scenografie e fotografia in quel di New York c’era un cantante che arrancava per vivere e credeva nel sogno di poter diventare qualcuno un giorno o l’altro andando contro qualunque previsione e consiglio, il suo nome era Davis ed oggi i Coen ci raccontano la sua storia con un film struggente e malinconico ma sicuramente imperdibile.
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righa pincher
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sabato 8 febbraio 2014
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a proposito di davies: il quasi nulla
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Bene, lo sappiamo. I Coen fanno ottimi film. Da Blood simple, a Fargo, da Barton Fink a L'uomo che non c'era su tutti. Ma come si fa a paragonare Inside Llewyn Davis (A proposito di Davis) a queste chicche?
Siamo nel 1961 e Llewyn Davis (il cui padre di origine irlandese è stato un marinaio noto nell'ambiente, la madre invece era italiana) non volendo imbarcarsi su un peschereccio né servire l'esercito americano per Kennedy, sentendo forte in sé una vena di malinconioso ed intenso folk-singer non vuole rinunciare al suo sogno artistico, sebbene non riesca a mettere insieme il pranzo con la cena e mostri in ogni occasione di essere sempre capace di perdere qualcosa (un figlio che non sapeva di avere, una donna a cui dice "ti amo", lo scatolone dei ricordi d'infanzia, un brevetto di navigazione indispensabile, il gatto).
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Bene, lo sappiamo. I Coen fanno ottimi film. Da Blood simple, a Fargo, da Barton Fink a L'uomo che non c'era su tutti. Ma come si fa a paragonare Inside Llewyn Davis (A proposito di Davis) a queste chicche?
Siamo nel 1961 e Llewyn Davis (il cui padre di origine irlandese è stato un marinaio noto nell'ambiente, la madre invece era italiana) non volendo imbarcarsi su un peschereccio né servire l'esercito americano per Kennedy, sentendo forte in sé una vena di malinconioso ed intenso folk-singer non vuole rinunciare al suo sogno artistico, sebbene non riesca a mettere insieme il pranzo con la cena e mostri in ogni occasione di essere sempre capace di perdere qualcosa (un figlio che non sapeva di avere, una donna a cui dice "ti amo", lo scatolone dei ricordi d'infanzia, un brevetto di navigazione indispensabile, il gatto). E infatti è un loser, ma non solo secondo i parametri dell'industria culturale del folk, che mostra di apprezzare lagne o divertissement idioti molto peggiori dei classici che interpreta lui con tanta intensità. Non solo perché è un artista da localino piccolo e fumoso del Greenwich newyorkese (svelato qui senza nessuna indulgenza romantica), ma perché rappresenta un'arte vecchia. Vecchia e sorpassata è la musica che suona e che non sa reinterpretare, come farà invece Bob Dylan (che sentiamo al suo debutto proprio nel finale); Elvis già suonava da anni ed era famoso (è citato nel film) e nel 1962 negli Stati Uniti sbarcheranno i Beatles. Un mondo di confine quello attraversato da Davies, tra il vecchio e rimasticato che resiste solo nelle forme più stucchevoli in attesa di un vero poeta (Dylan) e la vera bomba di novità capace di conciliare cultura e affari quale sarà il pop. Insieme a questo personaggio esile, incerto, senza un vero dramma e senza una vera vena che lo esprima, compare la vecchia guardia dei jazzisti nella coeniana grottesca figura del vecchio musicista eroinomane e sciancato, in compagnia del quale Davies compie il suo fallimentare viaggio a Chicago in cerca di un contratto. Si intrecciano così due derive, su una strada che è fredda, buia e senza consolazioni. Se questo film ha un merito non sta nella struttura ad anello, nei simbolismi un po' patacca del gatto che si chiama Ulisse con tutta la mitologia del nostos e del viaggio della conoscenza, né sta nella pur accennata pittura sociale degli appassionati di musica upper-class che si improvvisano benefattori del povero giovane Davies, ma nel fatto che in mezzo a tanti vecchi (anche i produttori lo sono) anche lui, giovane, è un vecchio. Hang me, hang me, canta Davies ben due volte. Sarà accontentato dalla Storia. E intanto noi spettatori ci domandiamo: e dunque?
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(di cizeta)
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nikthequik
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domenica 9 febbraio 2014
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tornano i vinti dei coen
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La storia di questa anima folk triste e rude che incrociando, in modo apparentemente casuale, le vite degli altri ne determina lo svolgimento. I Coen tornano, dopo la parentesi de Il Grinta, a ciò che riescono a fare meglio, raccontare dei loro personaggi. Questa volta però non è solo la storia di un perdente, un vinto, è soprattutto la meraviglia della musica e la forza della creatività.
Personaggi caratterizzati e studiati benissimo dal protagonista al proprietario del locale.
Però uno dei protagonisti principali è il Gatto che il musicista porta spesso con se il quale rappresenta la vita o almeno la situazione del protagonista, senza una meta, alla ricerca di un qualcosa che neanche lui sa poi se si aggiunge il nome del felino le similitudini e le metafore aumentano.
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La storia di questa anima folk triste e rude che incrociando, in modo apparentemente casuale, le vite degli altri ne determina lo svolgimento. I Coen tornano, dopo la parentesi de Il Grinta, a ciò che riescono a fare meglio, raccontare dei loro personaggi. Questa volta però non è solo la storia di un perdente, un vinto, è soprattutto la meraviglia della musica e la forza della creatività.
Personaggi caratterizzati e studiati benissimo dal protagonista al proprietario del locale.
Però uno dei protagonisti principali è il Gatto che il musicista porta spesso con se il quale rappresenta la vita o almeno la situazione del protagonista, senza una meta, alla ricerca di un qualcosa che neanche lui sa poi se si aggiunge il nome del felino le similitudini e le metafore aumentano...
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germano f.
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martedì 18 febbraio 2014
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hang me, oh hang me
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Non si finisce mai di perdere con i Coen. O forse è meglio dire: non si finisce mai di riconoscersi in questi loro personaggi assuefatti alla sconfitta e ai calci sul sedere.
La storia di questo cantante folk dei primissimi anni sessanta nel Greenwich Village a New York si dipana lenta e riflessiva come la neve grigia che a un certo punto si stende sulla città. Il personaggio principale vaga per le strade alla ricerca di amici scostanti o disperati come lui; divani su cui dormire scomodi e tristemente marroni; straordinarie canzoni folk che ci cullano nella visione delle sue peregrinazioni. I Coen sono qui al loro meglio : intimi, riflessivi, nostalgici, amanti di una vita passata che tutti ci accomuna e che sempre ci farà scappare una lacrima.
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Non si finisce mai di perdere con i Coen. O forse è meglio dire: non si finisce mai di riconoscersi in questi loro personaggi assuefatti alla sconfitta e ai calci sul sedere.
La storia di questo cantante folk dei primissimi anni sessanta nel Greenwich Village a New York si dipana lenta e riflessiva come la neve grigia che a un certo punto si stende sulla città. Il personaggio principale vaga per le strade alla ricerca di amici scostanti o disperati come lui; divani su cui dormire scomodi e tristemente marroni; straordinarie canzoni folk che ci cullano nella visione delle sue peregrinazioni. I Coen sono qui al loro meglio : intimi, riflessivi, nostalgici, amanti di una vita passata che tutti ci accomuna e che sempre ci farà scappare una lacrima. Oscar Isaac è un'autentica sorpresa per la capacità di calarsi in uno dei personaggi coeniani meglio riusciti degli ultimi anni. Traspare da lui la passione verace e la pacata sofferenza tipica degli eroi dei due fratellini. Bellissima la fotografia di Bruno Delbonnel : grigia, calma, autoriale...ti porta lontano. Straordinaria, ma è inutile dirlo, la colonna sonora prodotta da T-Bone Burnett : canzoni che ti entrano nell'anima, che ti portano dove vogliono, che ti fanno arrivare lontano nei tuoi ricordi. E' un film da vedere. Un film a cui pensi ancora dopo una settimana dalla sua visione. Un film che sarebbe bello vedere e rivedere, per poterne assaporare ogni volta le sue meravigliose e, a volte, assurde particolarità. Ti rimangono le freddure tipiche dei Coen; un gatto rosso che il protagonista regge maldestramente con la destra; un padre catatonico che riesce comunque a commuoversi per una canzone cantata dal figlio,...e noi con lui; un microfono in una sala fumosa con qualche timido applauso, qualche chiacchiera sottovoce, una bocca che si avvicina e...
E' bello sapere che il mondo gira, produce, corre, ti ingoia nel suo vortice...ma da qualche parte negli Stati Uniti ci sono due fratelli che riescono ancora a scrivere un film che con la sua narrativa circolare riesca a farti fermare e riflettere. Riflettere su quest'opera cinematografica, sul testo di questa canzone che dice "Impiccami, Oh Impiccami", sulla vita di questo personaggio perdente e triste...come un po' perdente e triste mi sento anch'io, ma comunque fiero e contento di trovarmi in tale compagnia.
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(di mara baraldo)
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fvm56
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martedì 4 marzo 2014
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ironia o tristezza?
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E’ davvero possibile oggi in un film riuscire a rappresentare la cruda realtà della durezza della vita attraverso una chiave di lettura ironica e sarcastica, che permetta allo spettatore di ridere di gusto, e per l’intera durata della proiezione? Guardando “A proposito di Davies” sembrerebbe proprio di sì. Anche stavolta infatti i fratelli Cohen, aggiungendo soltanto un pizzico di spleen in più, sono riusciti a ricreare quell’alchimia speciale che è il loro marchio di fabbrica, e che ci ha regalato tanti piccoli capolavori.
La storia di Davies è quella di un musicista talentuoso che, nell’inverno del ’61, si aggira per New York alla disperata ricerca di un briciolo di successo, o più semplicemente di un qualsiasi lavoro legato alla musica che gli permetta solo di sopravvivere.
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E’ davvero possibile oggi in un film riuscire a rappresentare la cruda realtà della durezza della vita attraverso una chiave di lettura ironica e sarcastica, che permetta allo spettatore di ridere di gusto, e per l’intera durata della proiezione? Guardando “A proposito di Davies” sembrerebbe proprio di sì. Anche stavolta infatti i fratelli Cohen, aggiungendo soltanto un pizzico di spleen in più, sono riusciti a ricreare quell’alchimia speciale che è il loro marchio di fabbrica, e che ci ha regalato tanti piccoli capolavori.
La storia di Davies è quella di un musicista talentuoso che, nell’inverno del ’61, si aggira per New York alla disperata ricerca di un briciolo di successo, o più semplicemente di un qualsiasi lavoro legato alla musica che gli permetta solo di sopravvivere. Vagando per una città fredda ed inospitale (ottima la fotografia, un valido aiuto nella costruzione dell’atmosfera) Davies interagisce con personaggi dalle varie e specifiche originalità, mantenendo però sempre un suo punto di vista sulla realtà, che si mantiene semplice e “puro” come la sua musica, nonostante le dure prove cui viene sottoposto.
Davies è un bravo artista ed è cosciente di esserlo, ma di fatto sta vivendo nel periodo storico più “inospitale” per la sua musica: siamo nella fase finale degli “Happy Days” del conservatorismo Usa, all’alba di un periodo di grandi trasformazioni per la società americana. La cultura popolare va trasformandosi e con essa i gusti musicali. Ma non è ancora il tempo di Bob Dylan, e così la stuggente dolcezza della musica di Davies, troppo elaborata per essere folk classico di provincia e troppo acerba per anticipare le novità dei sixties, non può ancora avere successo.
C’è da sperare che Davies tenga duro ancora un po’, ma è sempre più fiaccato nel morale oltre che nel fisico, ed inizia ad arrendersi accettando il consiglio di gettare la spugna ed imbarcarsi in marina.
Prima di lasciare la terraferma però Davies decide di fare un ultimo tentativo: partire per Chicago per farsi ascoltare da un impresario di successo. La rappresentazione del viaggio è davvero speciale: c’è molto Kerouac, molta struggente durezza, ma anche tanta divertente originalità. Davies viaggia con due uomini assai particolari: un anziano sgradevole e malato (interpretato da un John Goodman spettacolare, che dimostra ancora una volta di essere un grande attore), ed un giovane inquietante e silenzioso, dal passato problematico e misterioso, sorprendentemente innamorato della poesia. Il resto della storia è tutto da vedere..
La pellicola ha inoltre il pregio di inquadrare un periodo storico specifico partendo dal punto di vista acuto e mai banale di un “looser”, uno sconfitto da quella società che è sempre dura con tutti coloro che non rientrano nei canoni classici, e nelle regole sociali. Un periodo della storia Usa ancora implicitamente violento in cui i diritti sono al margine, che “arresta” e respinge senza tante chiacchiere ogni diversità, ma che al tempo stesso permette all’arte vera di sorgere e crescere, che accoglie i suoi artisti in quel Greenwich newyorkese che è da sempre linfa vitale e nutrimento per ogni movimento artistico.. In attesa che esso diventi “norma”, si diffonda, arrivi alla cultura popolare americana, e magari al successo internazionale.
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ennas
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lunedì 10 febbraio 2014
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ritratto in chiaroscuro di un sognatore
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Anni ’60 del Novecento: un talento musicale misconosciuto, Llewyn Davis, cantante-musicista folk prima che questo genere musicale diventi celebre, ottimo materiale umano per girare il ritratto di un sognatore. In questa scelta il fiuto dei fratelli Coen si ribadisce in tutta la sua genialità. Nel film, si dispiega poi la loro grande padronanza del cinema :in primis nella scelta dell’attore protagonista, Oscar Isaac si cala perfettamente nel personaggio,con quell’aria amletica, naturalmente brusca ed afflitta.
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Anni ’60 del Novecento: un talento musicale misconosciuto, Llewyn Davis, cantante-musicista folk prima che questo genere musicale diventi celebre, ottimo materiale umano per girare il ritratto di un sognatore. In questa scelta il fiuto dei fratelli Coen si ribadisce in tutta la sua genialità. Nel film, si dispiega poi la loro grande padronanza del cinema :in primis nella scelta dell’attore protagonista, Oscar Isaac si cala perfettamente nel personaggio,con quell’aria amletica, naturalmente brusca ed afflitta.
Il sognatore Davis è rimasto solo ad eseguire le sue ballate dopo che il partner Timlin se ne è andato nel più vendicativo dei modi. Davis si esibisce nel fumoso Gaslight Cafè e dorme sui divani degli amici. Ottima anche la scelta del colore e degli ambienti per questo film: quasi un color seppia con innesti di bianco e grigio ferro, spesso il colore dei sogni non è roseo e squillante.
Difendere strenuamente il proprio talento in un mondo mercantile che non lo riconosce non è una scelta per Davis è un’energia dentro la pelle che lo spinge perennemente in fuga, la realtà gli scivola addosso mostrando le sue perdite: un figlio che ignorava che esistesse, un aborto che non può impedire, un amore tramutato in insofferenza, pezzi del suo passato che lui manda al macero in blocco , senza memoria e senza scelta.
Il sognatore che ne risulta è profondamente malinconico, come lo è l’intero film dove anche i bravi attori non protagonisti danno via a personaggi in perfetta sintonia con l’antieroe Davis.
Originale anche la resa del gatto in fuga: un animale che pur domestico conserva una sua irriducibile e selvatica autonomia. Comico il recupero di Davis di una femmina al posto di un maschio, il quale invece tornerà da solo ( Ulisse si chiama) alla sua Itaca come Davis ritornerà al punto di partenza in questa storia circolare. Il sognatore non può sottrarsi alla sua sfera, al suo mondo e la musica è l’arte per eccellenza per esprimere un mondo ideale. Con quest’opera i fratelli Coen hanno creato un flm triste ma di splendida, smagliante armonia filmica, da grandi registi quali sono. Un film da non perdere.
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michele
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giovedì 13 febbraio 2014
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quando la musica (folk) è protagonista
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New York, 1961. Siamo nel Greenwich Village, il quartiere di Manhattan dove in quel periodo si riunivano la maggior parte degli artisti che tentavano di affermarsi e di guadagnarsi da vivere con la propria arte, chi con la pittura, chi con la scrittura, chi con la musica. Llewyn Davis è un cantante folk che cerca di sopravvivere, promuovendo la sua musica tra un concerto e l’altro nei piccoli club della Grande Mela. Non è facile però, il suicidio del suo partner musicale lo ha costretto infatti a reinventarsi una carriera da solista che al momento non sta dando i suoi frutti e vive come un vagabondo cercando ospitalità tra i pochi amici che gli sono rimasti. In perfetto stile Coen il personaggio di Davis è un perdente e lo è non solo dal punto di vista artistico, ma lo è su tutti i fronti, su quello sentimentale, la sua ex ragazza sta con il suo migliore amico e abortisce perché non sa di chi è il bambino che aspetta, è un perdente anche sul fronte familiare, la sorella è fredda, scostante nei suoi confronti. Attraverso una pregevole fotografia che sembra più che ricostruire quel periodo, filmare direttamente quel momento storico, lo spettatore assiste così, in chiave profondamente pessimista, alla storia di questo cantautore, liberamente ispirata alla vita del folk-singer Dave Van Ronk, I Coen però, tutto questo pessimismo, lo mostrano a modo loro, in maniera cinica, attraverso personaggi surreali, folli che permettono al film di viaggiare sempre a cavallo del confine tra dramma e commedia, senza mai lasciare spazio a momenti patetici o retorici, ma al contrario, dando vita a sequenze piuttosto esilaranti e grottesche. L’altra grande abilità dei fratelli di Minneapolis, oltre a saper riconfermare quelle che sono le caratteristiche del loro cinema, seppur dai contorni leggermente più sfumati in questo caso, è quella di rendere protagonista un altro elemento, la musica che acquisisce la stessa importanza e valenza sul piano dei contenuti di quella dell’eroe principale, attraverso il quale progredisce il racconto. Anzi, è proprio la musica la vera protagonista della pellicola. I Coen ci regalano ampi momenti musicali in cui ascoltiamo intere canzoni per tutta la loro durata reale e ciò avviene, non esclusivamente per un’esigenza puramente formale, ma al contrario, perché le ballate folk racchiudono nei loro testi l’essenza stessa della storia di Davis, attraverso le vicende di vagabondi, di umani erranti senza una meta precisa in cerca della loro terra promessa, il cui orizzonte si allontana sempre di più fino a diventare invisibile agli occhi e alla propria anima. E’ un pessimismo potremmo dire addirittura cosmico quello che ci viene mostrato, non sono infatti solo le scelte sbagliate del protagonista a condannarlo artisticamente, ma è soprattutto il destino che si mette di traverso e di fronte al quale l’uomo non può fare niente, neanche impiegando tutte le sue forze. E’ il destino ineluttabile che condanna Davis ad uscire di scena proprio un attimo prima che il più grande di tutti faccia la sua comparsa al Greenwich e riesca a sdoganare questo tipo di musica attraverso la sua chitarra e la sua armonica, nome e cognome Bob Dylan.
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enzo70
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lunedì 10 febbraio 2014
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la ballata di un sognatore
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Un perdente perfetto Llewyn Davis, interpretato da un ottimo Oscar Isaac, è il protagonista di questo ritorno ad un cinema semplice dei fratelli Cohen, che riescono, come sempre, con il loro stile unico, a sorprendere. Ci sono diversi film, in questo film, sempre composto al limite del parossismo, folk la musica di sottofondo, terribilmente cittadino il contesto sociale, fatto di solitudine, speranza e delusione e sullo sfondo lei, sempre lei, la diva del cinema, NYC, sempre pronta ad interpretare perfettamente qualunque parte le venga sottoposta. Nei giorni immediatamente precedenti l’uscita del film è morto Pete Seeger l’uomo che ha portato il folk nel cuore della musica statunitense, e questo film può essere visto come un omaggio postumo che i fratelli Cohen gli hanno dedicato.
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Un perdente perfetto Llewyn Davis, interpretato da un ottimo Oscar Isaac, è il protagonista di questo ritorno ad un cinema semplice dei fratelli Cohen, che riescono, come sempre, con il loro stile unico, a sorprendere. Ci sono diversi film, in questo film, sempre composto al limite del parossismo, folk la musica di sottofondo, terribilmente cittadino il contesto sociale, fatto di solitudine, speranza e delusione e sullo sfondo lei, sempre lei, la diva del cinema, NYC, sempre pronta ad interpretare perfettamente qualunque parte le venga sottoposta. Nei giorni immediatamente precedenti l’uscita del film è morto Pete Seeger l’uomo che ha portato il folk nel cuore della musica statunitense, e questo film può essere visto come un omaggio postumo che i fratelli Cohen gli hanno dedicato. L’essenzialità del suono della chitarra, arricchita solo dalla voce dei cantanti, che accompagna lo spettatore lungo tutto il film fa da vera colonna sonora di un periodo che culminerà con i grandi artisti del nuovo folk americano, per intenderci quello di Bob Dylan e Joan Baez. Il protagonista non ha radici, dorme sui divani, non ne indovina una, bellissime vicissitudine quando decide di imbarcarsi per rinunciare alla musica. Come i sogni della gente che vanno avanti nonostante la vita.
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