Quale che sia il giudizio personale su di un’opera come Gravity è indubbio che ci si trovi di fronte ad un’esperienza visiva singolarmente intensa. In poco più di novanta minuti, la versatile maestria di Alfonso Cuarón ci consegna un’ennesima riflessione sul tema della catarsi, il ritorno alla vita e l’elaborazione del lutto e lo fa coniugando meravigliosamente gli stilemi di un ottimo prodotto di intrattenimento ad alto budget con la forza narrativa del grande cinema d’autore.
Uno spaventoso incidente trasforma una missione spaziale di routine in un incubo ad occhi aperti (e gravità zero) e costringe i due astronauti superstiti, la dottoressa Ryan Stone (Bullock) e il cosmonauta Matt Kowalsky (Clooney) in primis a correre contro il tempo per rientrare sulla Terra prima che carburante ed ossigeno si esauriscano e, in secondo luogo, a confrontarsi con se stessi, i propri limiti, traumi e debolezze.
Una volta perdonato a Cuarón (e al suo co-sceneggiatore, il figlio Jonas) qualche ricorso all’effetto facile (la macabra scoperta dei cadaveri degli altri astronauti) o al ricatto sentimentale (il riferimento alla figlia tragicamente scomparsa di Ryan), l’approccio scelto dal regista è vincente nel momento in cui rielabora, come si è già detto, motivi non nuovi con una padronanza dei contenuti e della messa in scena davvero stupefacente. Se è obiettivamente difficile non ravvisare nella protagonista molti elementi in comune con la Ellen Ripley interpretata da Sigourney Weaver in Aliens - scontro finale o, più in generale, ritrovare qua e là le stesse atmosfere di un film come Apollo 13 (sarà un caso se, qui come nell'opus di Ron Howard, troviamo Ed Harris a far da timoniere della missione da Houston?...), la differenza la fa innanzitutto il modo in cui lo spazio e le sue immense profondità vengono descritti e narrati. Diversamente dalle pellicole citate, il cosmo qui non è solamente cupo ed ostile ma diventa un luogo al contempo fisico e metafisico, di struggente e luminosa bellezza ma anche irto di pericoli e insidie e la lotta per la sopravvivenza di Ryan diventa, allo stesso tempo, fisica e psicologica, concreta e astratta perché è sì un confronto diretto con un ambiente inospitale ma anche, se non soprattutto, una sfida con la propria intrinseca fragilità. In tal senso i meriti vanno ascritti oltre che al regista, alla performance senza compromessi di Sandra Bullock (senza trucco, smagrita e vagamente androgina) capace di restituirci un personaggio che è insieme fragile e caparbio, duro e commovente cui George Clooney fa da spalla molto professionalmente; i momenti in cui la macchina da presa le si attacca letteralmente addosso sono di una potenza espressiva davvero rara. Menzione d’onore infine, com’era evidente, alla fotografia dei “maghi” Emmanuel Lubezki e Michael Seresin, già (meritatamente) in lizza per un Oscar assieme a Mark Sanger (impegnato con Cuarón in veste di montatore) e a tutto il reparto effetti speciali e sonori. In conclusione, un unico timore: la possibilità che il risultato di tale sforzo produttivo e artistico sia penalizzato dal piccolo schermo, ragion per cui se ne consiglia vivamente la visione al cinema.
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