Titolo originale | Pavilion |
Anno | 2012 |
Genere | Drammatico |
Produzione | USA |
Durata | 72 minuti |
Regia di | Tim Sutton |
Attori | Addie Bartlett, Aaron Buyea, Zach Cali, Cody Hamric, Max Schaffner . |
Tag | Da vedere 2012 |
MYmonetro | 3,34 su 1 recensioni tra critica, pubblico e dizionari. |
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Ultimo aggiornamento lunedì 3 dicembre 2012
Il regista Tim Sutton racconta le vite di teenager americani alle prese con amicizia e primi amori. Il film è stato premiato a Torino Film Festival,
CONSIGLIATO SÌ
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Il quindicenne Max lascia la casa sul lago a Syracuse, New York, per trasferirsi a vivere con il padre in Arizona, in una stanza d’hotel. Qui, osserva i suoi coetanei passare le serate su e giù da una rampa per Bmx o addentrarsi nel nulla di una radura.
Pavilion è un oggetto raro e rarefatto, un film fatto con un’unica materia -il tempo- su dei ragazzini che il tempo lo ammazzano, ininterrottamente. La traiettoria delle loro bici, che non sono fatte per sedercisi su ma solo per andare avanti, descrive una sorta di nastro di Moebius, un continuum ipnotizzante che sembra non avere una fine, una soluzione, un significato. Il film dell’esordiente Tim Sutton procede allo stesso modo, senza mai accomodarsi su una narrazione, adottando uno sguardo sull’adolescenza che è quello degli adolescenti stessi, interrogativo ma pronto alla distrazione e al movimento, oppure fisso e testardo: lo sguardo di chi con il tempo non lotta (ancora) ma naviga nel tempo, ci fa surf. Uno sguardo, soprattutto, lontano anni luce da quello voyeurista di Larry Clark e probabilmente anche meno empatico di quello di Gus Van Sant, perché è uno sguardo alla pari, a volte quasi anonimo come quello dei ragazzi che inquadra, appunto lo sguardo di uno fra loro.
Non c’è violenza né tensione, nemmeno pre-sessuale. L’argomento è solo sfiorato, come altri argomenti, ma il regista non sembra alla ricerca di alcun segreto o rivelazione: se c’è una comprensione interna al film è dell’ordine della comprensione umana, in un’accezione quasi zen, dove l’illuminazione (anche letterale, perché è la luce a fare di questo lavoro qualcosa di speciale) accomuna e confonde il soggetto che osserva e l’oggetto dell’osservazione.
Pavilion non è un film che riguarda (qualcuno o qualcosa) ma un film che guarda, e si limita a cogliere il presente e la straziante sensazione di perdita che il presente porta naturalmente con sé.
Max non è il protagonista, semplicemente perché non c’è molto spazio per il protagonismo nell’opera prima di Sutton: è piuttosto un vettore, un mezzo di trasporto da un luogo ad un altro; dalla noia del comfort, nell’acquatica e lussurreggiante regione dei laghi dello stato di New York, all’alienazione del deserto arido e vuoto dell’Arizona. Eppure Max (Schaffner), nel quale ci si imbatte solo ad un certo punto e non da subito, è anche l’emblema stesso del film, perché incarna alla perfezione la calma e il mistero di cui sono pervasi Pavilion e il mondo che ritrae.
La sincerità e la freschezza di alcune scene non bastano a promovuere il film .