nicell
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giovedì 8 agosto 2013
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la storia di un grande sogno.
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L’ultimo pastore, film di Marco Bonfanti che narra la realtà (o meglio, una realtà separata dalla realtà predominante) e che veicola ben più di un solo messaggio (di livelli interpretativi ce ne sono, credetemi!), è decisamente tra i film più divertenti, intelligenti e godibili che mi è capitato di vedere negli ultimi anni. È un film che racconta la quotidianità e la follia dell’ultimo pastore milanese, il quale, consapevole dell’ignoranza che circola in giro a proposito di natura, animali e mestieri ormai andati perduti, decide di portare ai bambini di Milano un po’ di cultura, di felicità e…di pecore.
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L’ultimo pastore, film di Marco Bonfanti che narra la realtà (o meglio, una realtà separata dalla realtà predominante) e che veicola ben più di un solo messaggio (di livelli interpretativi ce ne sono, credetemi!), è decisamente tra i film più divertenti, intelligenti e godibili che mi è capitato di vedere negli ultimi anni. È un film che racconta la quotidianità e la follia dell’ultimo pastore milanese, il quale, consapevole dell’ignoranza che circola in giro a proposito di natura, animali e mestieri ormai andati perduti, decide di portare ai bambini di Milano un po’ di cultura, di felicità e…di pecore. Sì, decide di portare in Piazza Duomo ai bambini di una scuola elementare il suo gregge di 1.500 pecore, attraversando le strade di Milano, costeggiando la metro, bloccando il traffico per far attraversare le sue pecore e portando, così, alla luce (e allo smog) della città quella realtà che sta diventando demodé, quel mestiere che sta svanendo, quegli ovini così simpatici che i bambini vedono solo nei cartoni animati (e dipende da quali cartoni guardano). Un percorso fisicamente piuttosto arduo ed impegnativo, un sogno da inseguire con una certa dose di coraggio (e testardaggine), un personaggio che è un personaggio nel senso più “tondo” della parola e che non può non risultare simpatico. A cavallo tra documentario e favola, si toccano temi come il rispetto per la natura, la società
che cambia, la cultura delle origini che va perdendosi, la possibilità di raggiungere il proprio sogno e tenerselo stretto, la famiglia, la follia (della città o del pastore?), i diversi tipi di realtà, la realtà in evoluzione e l’educazione. Il tutto ridendo, dall’inizio alla fine, per i motivi più disparati: dalla mimica facciale, all’accostamento immagini-musica, ai pensieri del pastore, alle interviste ai bambini. Splendida la colonna sonora, bellissime le immagini, stupendo il soggetto e meraviglioso il risultato finale. Alla fine è impossibile non commuoversi.
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giannuzzo
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domenica 27 ottobre 2013
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lo sguardo puro di un bambino
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L’ultimo pastore è la storia di 700 pecore nel centro di Milano, una lucida follia d’altri tempi portata avanti attraverso una piacevole sceneggiatura che sembra voler mostrare la macchina da presa come un’intrusa nella vita di Renato, sua moglie e dei loro quattro figli. Nel film, che ripercorre tutte e quattro le stagioni della pastorizia, dalla transumanza fino al ritorno a casa, c’è l’inevitabile riconoscimento della palese discrepanza vigente tra la società contemporanea, i mestieri più antichi e la loro passata esistenza.
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L’ultimo pastore è la storia di 700 pecore nel centro di Milano, una lucida follia d’altri tempi portata avanti attraverso una piacevole sceneggiatura che sembra voler mostrare la macchina da presa come un’intrusa nella vita di Renato, sua moglie e dei loro quattro figli. Nel film, che ripercorre tutte e quattro le stagioni della pastorizia, dalla transumanza fino al ritorno a casa, c’è l’inevitabile riconoscimento della palese discrepanza vigente tra la società contemporanea, i mestieri più antichi e la loro passata esistenza. Questa dissonanza non viene portata avanti nel film attraverso un registro puramente drammaturgico e da compianto funerario, bensì mediante una notevole e originale elaborazione che passa dai toni fiabeschi, romantici e ironici della prima parte a quelli più realistici della seconda e a quelli onirici dell’ultima. La scena in cui il gregge entra in città muovendosi sull’asfalto sotto un cavalcavia è l’emblema del passaggio a un tono prettamente surrealistico, reso ancora più evidente dalla splendida fotografia di Michele D’Attanasio e dalle musiche di Danilo Caposeno. Se nella prima parte della pellicola il gregge era movimento sinuoso, coreografico, all’interno di un locus amoenus, nella seconda si evidenzia come un gruppo affaticato, demoralizzato nell’attraversare gli incroci della periferia milanese. Nella terza, invece, ponendo l’accento sul suo essere massa differente che sbarca nell’indifferente, diviene esercito che “marcia” sulla metropoli.
Si trova una certa somiglianza tra i personaggi “folli” e “tracotanti di Assoluto” del regista Werner Herzog e Renato Zucchelli, così come è geniale il paragone, proposto allo stesso regista durante un festival in Giappone, tra il pastore e il Totoro del regista Hayao Miyazaki. C’è, infatti, in entrambi la capacità di evidenziare un attaccamento alla natura e alla sua bellezza quasi metafisico, panico e primigenio.
Il film di Bonfanti ha il pregio di portare una ventata di freschezza nel panorama del cinema italiano e consente, soprattutto, di riflettere, senza elucubrare, sui concetti di sogno, passione e vocazione. La serenità del protagonista sembra quella di un saggio epicureo anelante il grado zero della vita mediante un’esistenza nomade, libera e dedita al lavoro: «Mi chiamo Renato Zucchelli, faccio il pastore e questo è il mio mondo». Stupendo.
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sergio dal maso
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mercoledì 17 giugno 2015
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un piccolo capolavoro
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“… al mondo antico, chiuso nel suo cuore, la gente del duemila ormai non crede più!” La storia di Serafino (Adriano Celentano)
Un uomo, un cane, millecinquecento pecore e un sogno di libertà.
Il sogno è quello di Renato Zucchelli, l’ultimo pastore milanese, l’ultimo anacronistico baluardo di una tradizione secolare che da molto tempo ha inevitabilmente reciso ogni legame con i grandi agglomerati urbani.
Il “nostro” Renato, infatti, ha scelto fin da adolescente la vita nomade della pastorizia ma nei mesi più freddi sverna le sue pecore a Settala, nella fattoria di famiglia che dista pochi chilometri dal centro di Milano.
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“… al mondo antico, chiuso nel suo cuore, la gente del duemila ormai non crede più!” La storia di Serafino (Adriano Celentano)
Un uomo, un cane, millecinquecento pecore e un sogno di libertà.
Il sogno è quello di Renato Zucchelli, l’ultimo pastore milanese, l’ultimo anacronistico baluardo di una tradizione secolare che da molto tempo ha inevitabilmente reciso ogni legame con i grandi agglomerati urbani.
Il “nostro” Renato, infatti, ha scelto fin da adolescente la vita nomade della pastorizia ma nei mesi più freddi sverna le sue pecore a Settala, nella fattoria di famiglia che dista pochi chilometri dal centro di Milano.Passato l’inverno inizia la transumanza e si trasferisce con il suo enorme gregge nelle alti valli bergamasche, nella zona tra la Valle Seriana e la Val Brembana e l’incantevole Parco delle Orobie.
Renato è un gigante bonaccione, ama la vita in montagna all’aria aperta e i suoi animali, le canzoni di Adriano Celentano e le tradizioni antiche come il presepio. Un ragazzone semplice ma assolutamente non banale, fortemente radicato nella cultura ancestrale dei pastori bergamaschi. E’ uno dei ultimi dieci pastori rimasti in grado di parlare il gai, una lingua pre-medievale utilizzata per comunicare tra loro senza farsi capire dai contadini.
Quando rientra a Settala lo aspetta la sua splendida famiglia, unita e orgogliosa: la moglie, affabile e determinata, e i loro quattro figli.
Ha un sorriso contagioso e l’ingenuità di un bambino. Proprio i bambini e la loro lontananza dalla natura sono la sua “ossessione”. Il suo più grande desiderio è quello di far conoscere loro gli animali, in particolare le sue amate pecore. Il sorprendente regista milanese Marco Bonfanti ha realizzato un piccolo gioiello. Ci fa conoscere Renato ed entrare nella vita dell’Ultimo pastore un po’ alla volta,per passi successivi, attraverso il ciclo delle stagioni della pastorizia che inizia con la transumanza e finisce con il ritorno a casa. Le scelte registiche sono efficaci e indovinate, variano seguendo l’evoluzione del racconto con delle intuizioni tecniche davvero notevoli per un cineasta esordiente. La prima parte, girata nelle valli alpine orobiche, ha scene di rara bellezza, capaci di catturare i meravigliosi paesaggi d’alta montagna con sinuose inquadrature e sequenze a largo campo dai colori ammalianti. I toni romantici, a tratti da favola contemporanea, diventano più freddi e distaccati con la fine della transumanza e lo spostamento del gregge in pianura. Il viaggio verso casa porta con sé la fatica degli animali e la difficoltà di muoversi in mezzo al traffico e al caos della vita cittadina. Ma è anche la scoperta della famiglia di Renato e della quotidianità invernale con il commercio di ovini garantito, in tempi di crisi, dalle macellerie mussulmane. Molto belle anche le immagini dei bambini a scuola e le interviste ai piccoli che preparano l’ultima parte, quella più importante, la “marcia” di Renato e del suo gregge alla conquista di Piazza del Duomo, il compimento del sogno di portare le sue pecore ai bambini milanesi, ai piedi della Madonnina. Qui il tono torna romantico, a tratti addirittura epico. L’incedere di Renato con l’asino, il cane Moru e le settecento pecore (solo metà del gregge è stato autorizzato) verso il centro di Milano è ripreso con inquadrature simboliche e coinvolgenti, dall’effetto allucinatorio, l’utilizzo del rallenty ne enfatizza la spettacolarità. Parte del merito va attribuito a una colonna sonora funzionale e suggestiva, le belle composizioni di Danilo Caposeno accompagnano la storia e la regia con un affiatamento perfetto.
Il film di Marco Bonfanti ha avuto un successo tanto incredibile quanto inaspettato. Partito in sordina, è stato pian piano invitato a decine di Festival in tutto il mondo, ottenendo alla fine anche la distribuzione in sala a livello nazionale, cosa molto difficile per un documentario, tra l’altro italiano.
Il sogno di Renato si è avverato il 1 ottobre 2011. Le sue pecore hanno invaso Piazza del Duomo, le immagini del loro arrivo hanno fatto il giro dei telegiornali di mezzo mondo.
Ma questo per l’Ultimo pastore non era importante, quello che contava era solo portare le pecore ai bambini di Milano.
E dire loro, semplicemente, “mi chiamo Renato Zucchelli, faccio il pastore e questo è il mio mondo”.
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berkaal
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sabato 15 giugno 2013
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un uomo, un cane e settecento pecore
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L'etichetta di "documentario" mi lascia un tantino perplesso: ho sempre pensato che questo vocabolo indicasse un'opera che registra fatti e avvenimenti completamente svincolati dall'intervento dell'operatore o del regista, i quali si limitano semplicemente a riprendere ciò che accade. Qui invece il protagonista in alcuni momenti "recita" ed alcune situazioni sono preparate e messe in scena dal nostro Bonfanti. Questi momenti si rivelano essere i più deboli della pellicola, sia per la sensazione di "fake", sia perché palesemente inverosimili e tolgono qualcosa al giudizio finale. Ma ciò che fa più male, e lascia allibiti soprattutto per il tema del film, è scoprire che abbiamo anche del product placement: in una ripresa, mentre il gregge di pecore si sposta in una strada urbana, sullo sfondo campeggia invadente il logo della catena di supermercati che ha finanziato la pellicola.
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L'etichetta di "documentario" mi lascia un tantino perplesso: ho sempre pensato che questo vocabolo indicasse un'opera che registra fatti e avvenimenti completamente svincolati dall'intervento dell'operatore o del regista, i quali si limitano semplicemente a riprendere ciò che accade. Qui invece il protagonista in alcuni momenti "recita" ed alcune situazioni sono preparate e messe in scena dal nostro Bonfanti. Questi momenti si rivelano essere i più deboli della pellicola, sia per la sensazione di "fake", sia perché palesemente inverosimili e tolgono qualcosa al giudizio finale. Ma ciò che fa più male, e lascia allibiti soprattutto per il tema del film, è scoprire che abbiamo anche del product placement: in una ripresa, mentre il gregge di pecore si sposta in una strada urbana, sullo sfondo campeggia invadente il logo della catena di supermercati che ha finanziato la pellicola. Della serie "tutti tengono famiglia".
Passiamo ora alle note positive. Le riprese iniziali sulle Alpi sono scioccanti per la maestosità delle vette ed interessanti per i luoghi, gli usi, il linguaggio di questa antichissima professione. L'azione si sposta poi in pianura con la lentissima marcia verso casa, ed anche qui la narrazione si mantiene densa e ricca di spunti e stimoli. Giunti a casa, la parte del leone spetta alle interviste che hanno per protagonisti il pastore e la moglie, pur restando spazio per alcune situazioni originali e coinvolgenti. Da un punto di vista tecnico, ho particolarmente apprezzato l'uso pesante del teleobbiettivo, che schiaccia le immagini, elimina la profondità di campo e dà modo al regista di "dipingere" quadri di rara bellezza. A dir la verità, per la composizione delle inquadrature più di una volta vien spontaneo pensare al "Quarto Stato" di Giuseppe Pellizza da Volpedo, ma la cosa non disturba affatto.
Per finire, ho avuto la fortuna di vedere il film senza prima leggerne la trama e nemmeno vederne il manifesto o altre immagini, ed ho avuto il piacere di godermi il finale senza minimamente prevederlo, con lo stupore del pellegrino ottocentesco che attraverso il dedalo di viuzze sbucava improvvisamente in piazza San Pietro e rimaneva obnubilato dalla imponenza della basilica. Quindi, un consiglio: se potete, non prendete Via della Conciliazione.
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