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I Taviani: azione artistica e umana

Cesare deve morire, Orso d'oro. Di Pino Farinotti.
di Pino Farinotti

In foto una scena del film di Cesare deve morire diretto da Paolo e Vittorio Taviani.

lunedì 5 marzo 2012 - Focus

Lettura in prospettiva dell'Orso ai Taviani. L'intenzione della coppia di registi è importante e virtuosa. Niente di nuovo naturalmente nell'impiegare attori non attori. Ma poi c'è la formula. E quella dei fratelli non era semplice, era piena di trappole. Affidi un testo che fa parte del più alto incanto per il mondo, il Giulio Cesare di Shakespeare, ai detenuti di Rebibbia. Il pericolo poteva essere la goliardia o l'accademia: il classico esercizio che si affida al più dotato degli allievi di un Centro Sperimentale. E coi Taviani ci starebbe, perché trattasi proprio di eterni potenziali figli dello "sperimentale".

Il Giulio Cesare ha un antenato lontano, l'edizione del 1953 di Mankiewicz. Un'opera nel più alto stile hollywoodiano, detto nel senso nobile, con Calhern nella parte di Cesare, Mason in quella di Bruto e un inatteso, strepitoso Brando in quella di Antonio. Produzione MGM con tutta la ricchezza che ne consegue. Il tutto al servizio di Shakespeare. Un'opera da storia del cinema, che fece parte della cinquina più nobile mai selezionata nella storia degli Academy Awards. Gli altri erano Da qui all'eternità, che vinse, Vacanze romane, Il cavaliere della valle solitaria, La Tunica primo cinemascope. Il Giulio Cesare vinse un Oscar per la miglior scenografia e arredamento per film in bianco e nero. Forse meritava di più. I Taviani hanno attraversato tutta la traiettoria artistica potenziale, per ottenere la cifra opposta. Nessuna accademia, nessun teatro, nessuna scenografia. Niente. Non hanno resistito alla tentazione dell'intervento artistico più povero e semplice, il non-colore. Direi un naturalismo estremo che gira su se stesso diventando un realismo al contrario. Ma è solo un dettaglio. E non c'è dubbio che Rebibbia si è rivelato un posto fortunato in quell'anomala chiave artistica, un'autentica casa di attori.

Attuale
Rilevo da parte dei Taviani un progetto formulato con attenzione al momento attuale del cinema. The Artist e Cesare deve morire: due film non possono essere più diversi, tuttavia qualche codice li accomuna. Per cominciare il bianco e nero, che è un richiamo a tempi passati e migliori. Se nel progetto italiano ci stava l'Orso la missione è dunque riuscita. Il film è ... quasi perfetto. I Taviani sanno tutto del cinema, è notorio. Artisticamente hanno composto un'opera capace di richiamare la genetica, la grande identità del nostro cinema, che è il realismo, nonostante l'eccesso di cui ho detto sopra. Siamo stati degli eroi in quel senso. Un'altra azione opportuna, fortunata, direi astuta, è stato Shakespeare. Il bardo conosceva il cinema trecento anni prima che esistesse. Soprattutto conosceva tutti i sentimenti, e i contenuti. Bruto, prima della decisiva e per lui mortale battaglia di Filippi dice che nelle epoche future si parlerà di quella battaglia con lingue che non sono ancora state inventate. È una dichiarazione preventiva dell'inglese, ad (auto)confermare la propria grandezza. Tutti i sentimenti conosciuti e tutti applicabili a ogni essere umano. Compresi i detenuti di quattrocento anni dopo. Se i Taviani avessero scelto un lavoro di De Filippo il movimento internazionale del cinema non li avrebbe premiati. Durante la rappresentazione gli autori inseriscono inserti estemporanei. Fanno emergere rancori personali che prendono origine dal sentimento shakespeariano. Non manca lo straniero che alla battuta "Roma è una città violenta e pericolosa" risponde "anche Algeri, la mia città". Una tentazione da "docu" che forse era superflua.

La coppia di autori ha trasformato un'iniziativa, come ho detto, di partenza didattica-goliardica, in un'opera vera. Il riferimento continua ad essere il Giulio Cesare di Mankiewicz, modelli opposti per estetica, mestiere, appeal. Voglio ricordare le voci: a Brando era toccato Cigoli, a Mason Panicali, grandi attori, maestri doppiatori. Le loro voci erano uno strumento musicale. Ma anche le voci di Salvatore Striano (Bruto) soprattutto quella di Antonio Frasca (Antonio) sono strumenti musicali. I primi appartengono a un'orchestra sinfonica i secondi a un gruppo di musica popolare. Ma sempre strumenti. E questo è stato il sortilegio dei Taviani, trasformare degli uomini in artisti. Ribadisco niente di nuovo, ma qui non hai rinvenuto un Lamberto Maggiorani, operaio, per fargli fare l'operaio in Ladri di Biciclette, hai selezionato dei detenuti e gli hai fatto recitare Shakespeare. E loro hanno sostenuto quelle battute e quei monologhi. Potevano cadere nell'oratorio e nel grottesco, invece sono stati interpreti credibili. Certo il dialetto napoletano aiuta, diventa un vero e proprio registro che si impone.
E poi un altro grande merito dei Taviani, quella straordinaria azione umana, un'opera nell'opera. Alla fine uno degli "attori" dice: "dopo aver conosciuto l'arte, questa cella è davvero una prigione". Azione umana, e documento rigoroso e coraggioso, come quando nei titoli finali si vengono a conoscere le condanne dei detenuti/attori. Alcuni di loro devono davvero molto, devono tutto, ai Taviani. C'è chi è diventato attore professionista, come Striano, e chi ha scritto libri. Infine la storia, quella del cinema. L'Orso d'oro di Berlino non fa parte del trittico più alto dei riconoscimenti, l'Oscar, Cannes e Venezia, ma è comunque un premio importante. Nella bacheca italiana mancava da tanto, tanto tempo.
Per finire, i nomi, oltre ai già citati: Giovanni Arcuri (Cesare), Dario Sonetti (Decio), Vincenzo Gallo (Lucio).

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