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Un film sulla morte? No, una storia d'amore

Trintignant e Riva raccontano l'esperienza di Amour e il rapporto con Haneke.
di Marianna Cappi

Jean-Louis Trintignant e Emmanuelle Riva a Roma per prensetare il film Amour
Jean-Louis Trintignant Altri nomi: (J.L. Trintignant / Jean Louis Trintignant ) 11 dicembre 1930, Piolenc (Francia) - 17 Giugno 2022, Uzès (Francia). Interpreta Georges nel film di Michael Haneke Amour.

mercoledì 10 ottobre 2012 - Incontri

Mesdames et Messieurs, ecco a voi Jean-Louis Trintignant e Emmanuelle Riva. Due nomi che hanno fatto la storia del cinema francese e non solo (Trintignant ha fatto anche la nostra), riuniti a Roma per un'occasione speciale qual è la promozione di Amour , il film di Michael Haneke che ha vinto la Palma d'Oro all'ultimo festival di Cannes e si prepara ad uscire nelle sale italiane il 25 ottobre, distribuito dalla Teodora Film. Un'occasione speciale, innanzitutto, per la qualità del film, che ha fatto parlare ad alcuni di capolavoro, ha commosso tanti e convinto tutti. Ma anche per la scomodità e l'universalità del soggetto trattato - una coppia di vecchi coniugi che si trova a dover affrontare la malattia sempre più invalidante di lei - e, non ultimo, per il contributo che i due attori hanno saputo dare al film congiuntamente, vale a dire come coppia sullo schermo: un contributo giustamente premiato, innanzitutto in occasione della stessa Cannes.
Sebbene le interviste siano state concesse separatamente, per pure ragioni organizzative, Trintignant e Riva si sono rivelati concordi su due punti fermi: l'ammirazione incontrastata per Haneke, nel quale hanno riposto cieca fiducia, e la certezza che, prima di tutto il resto e sopra tutto il resto, questo sia un film sull'amore, che non poteva chiamarsi altrimenti.



INTERVISTA A JEAN-LOUIS TRINTIGNANT

Un film importante, a distanza di più di una decina d'anni dall'ultimo set, il premio come miglior attore a Cannes, un'autobiografia appena uscita ("Alla fine ho deciso di vivere", Mondadori): è tempo di bilanci, signor Trintignant?
No. Io non sono importante nel film di Haneke. Sono un collaboratore del regista, alla stregua del direttore della fotografia. Sono bravo, ma non è merito mio, è merito del regista. Ho avuto molta fortuna, ma è stato soprattutto un caso. Prévert diceva che "il caso è una cosa troppo importante per essere lasciata al caso" ma io sono come un tappo di sughero, mi sono lasciato trasportare dalla corrente. Ho fatto 130 film, 100 dei quali si possono anche dimenticare, ma i bilanci li lascio ai registi, sulla loro opera, non c'è bisogno che li facciano anche gli attori.

Lei ha spesso detto di aver apprezzato moltissimo Michael Haneke. Quali qualità gli riconosce?
Apprezzo il suo grande rigore. È il primo a dire di se stesso che è più esigente di altri registi e che probabilmente è un buon regista proprio per questo. Non posso che essere d'accordo.

È vero che è stato molto esigente anche col piccione?
È vero. Avevo un braccio rotto, senza gesso, perché non si doveva vedere, ma pur sempre rotto. E abbiamo girato la seconda scena del piccione, la più difficile, per ben tre giorni. Dico solo che per un altro regista probabilmente non l'avrei mai fatto.

Il racconto del film è molto doloroso. Quanto lo è stato interpretare il personaggio di Georges?
Tanto. Al punto che non farò altri film. Ma è stato anche un piacere. Ripeto: mi sono lasciato andare.

Perché vuole rinunciare ad altri film?
Perché preferisco il teatro e, visto che bisogna scegliere, scelgo quello.

E se dovesse richiamarla Haneke?
In quel caso lo farei. Gli ho addirittura proposto io stesso di fare una piccola comparsa nel suo prossimo film.

Ma allora non è un vero addio al cinema...
È un arrivederci. D'altronde non è mai un vero addio, è sempre un arrivederci.

È vero che all'inizio non voleva accettare la parte?
Avevo visto Caché - Niente da dichiarare e l'avevo adorato. Fuori dal cinema avevo detto agli amici che erano con me che se uno come Haneke mi avesse chiamato avrei fatto volentieri un film con lui. Sei mesi esatti dopo mi ha chiamato. Quando ho letto la sceneggiatura, però, mi è sembrata troppo triste e non volevo più farlo, non mi andava di rattristare il pubblico. Haneke mi ha spiegato che l'argomento in effetti era triste ma il film sarebbe stato più lieve e carico di speranza. Se non avessi letto la sceneggiatura, non sarei mai andato a vedere un film su quest'argomento. Invece l'ho già visto quattro volte e sono d'accordo con il regista: è un film algido ma c'è persino un po' di umorismo e soprattutto della poesia. Si esce più felici che tristi. È un film che va difeso per questo, perché chi lo vedrà lo amerà, ma non sarà facile mandare al cinema gli italiani e i francesi. I tedeschi sono un popolo più duro, non si sono fatti intimorire e il film in Germania è già un grande successo.

Il film affronta un argomento che oggi è tabù. Concorda?
Molti argomenti del film fanno paura, ma un bravo regista è autorizzato a parlarne. Per me Amour è il miglior film di Haneke fino ad ora. La violenza che in altri suoi film io talvolta avevo trovato gratuita, qui non è che sia sparita ma è totalmente al servizio della storia e rende il film molto sensibile.

Quale immagina che sia il destino di Georges?
Ho fatto la stessa domanda a Haneke ma lui mi ha risposto che non lo sa, lascia la scelta all'immaginazione dello spettatore. Forse si suicida - mi ha detto - o va a vivere in un altro paese. Secondo me si suicida, ma con gioia. È un finale logico: ha ucciso qualcuno, anche se lo ha fatto per amore, e merita di trovare la morte a sua volta.

Tra i film della maturità le è capitato di lavorare con due grandi autori come Kieslowski, per Film: Rouge e ora Michael Haneke. Quali differenze o somiglianze rintraccia?
Secondo me si assomigliano molto, non a caso Haneke ama moltissimo l'operato di Kieslowski. Ed entrambi hanno una certa familiarità con Bergman. Le differenze riguardano i miei personaggi: per Kieslowski ero un vecchio misantropo, in Amour Georges è qualcuno che ama la gente e soprattutto ama la moglie. Ancora, dopo così tanti anni. È davvero un film d'amore.

Ciò che colpisce nel film, oltre al livello delle performances attoriali individuali, è la straordinaria naturalezza di Georges e Anne come coppia. Spontaneità o duro lavoro?
Non abbiamo fatto delle prove nel senso tradizionale del termine. Il film non è stato girato in pellicola ma in digitale, cosicché giravamo tutto, male che andava si buttava qualcosa senza che questo fosse un danno o un costo per la produzione. Però, prima di iniziare le riprese, io e Emmanuelle Riva abbiamo parlato molto. Questo ha fatto sì che il nostro stare in scena insieme funzionasse e fosse credibile nonostante la freddezza recitativa che il regista ci aveva imposto. Haneke non voleva assolutamente che facessimo trasparire le emozioni. Qualche volta la scena era così pesante che Emmanuelle scoppiava a piangere, ma allora lui la tagliava. "Niente lacrime", ripeteva. E non perché sia insensibile ma perché è convinto che l'emozione debba venire dalla situazione e debba essere catturata dalla macchina da presa. Non vuole che sia l'attore a cercare la commozione per poterla suscitare poi nello spettatore. Per lo stesso motivo non c'è alcuna musica di commento nel film. Se c'è una musica è perché esce dallo stereo o qualcuno la suona in scena, ma non perché il regista se ne serve per aumentare l'emozione. Non ho mai conosciuto un regista con così tante idee originali.

A suo avviso, il film parla di un caso di eutanasia o di un assassinio per amore?
So che Haneke aveva una zia che amava molto che, in fin di vita, gli aveva chiesto di aiutarla a morire. All'epoca lui si era rifiutato, non so se perché non se la sentisse o se perché è illegale, però credo che se ne sia pentito e che abbia fatto questo film per lei. Lui comunque non ama che si parli di eutanasia e trova che in Italia se ne parli troppo, probabilmente per una ragione religiosa.

Che ricordi ha della sua partecipazione ad alcuni tra i più grandi film della storia del cinema italiano?
Ho davvero vissuto l'età dell'oro del vostro cinema. Ho fatto una trentina di film in Italia, in un periodo felice e creativo. Ricordo Risi come un grande regista. Il Sorpasso che in Italia al momento dell'uscita era considerato un film commerciale, mentre in Francia fu visto come un film più intellettuale, di nicchia, ed ebbe meno successo. Anche Il Conformista di Bertolucci è stato un film importante, soprattutto per la vostra storia, ma mi piace ricordare Risi perché, avendo fatto soprattutto commedie, è stato forse sottovalutato rispetto alla sua capacità di raccontare il paese.

L'edizione italiana della sua autobiografia ha cambiato il titolo originale "Du côté d'Uzès" in "Alla fine ho deciso di vivere". Apprezza questa scelta?
Sì, mi piace molto il titolo italiano, ma va contestualizzato. Si riferisce ai due mesi successivi alla morte di mia figlia Marie, durante i quali ero completamente distaccato da tutto e da tutti e avevo persino smesso di parlare. Ad un certo punto mi sono detto: o mi ammazzo o continuo a vivere. Ho scelto di vivere.

Il lavoro è stato di aiuto in quei momenti?
Lo è stato il teatro. Ho portato in scena Aragon, Apollinaire e Jules Rénard e anche ora sto portando in tournée altri tre poeti: Prévert, Boris Vian e Desnos. La poesia mi piace molto. E mi piace Amleto, che ho fatto a teatro per dieci anni. Adoro Shakespeare, penso sia il più grande di tutti.

Com'è nata l'idea del libro?
L'autore, André Asséo, è un amico. Abbiamo parlato tanto, ma non sapevo che avesse questo progetto. Un giorno mi ha detto: "ho scritto un libro su di te, vuoi leggerlo?" È stata una vera sorpresa. Quello che gli avevo raccontato era tutto vero, ma erano cose dette in libertà, senza pensare ad una loro pubblicazione. Ora scriverò io un libro su André Asséo.

Lei ha fatto anche due film da regista...
Io volevo fare il regista. Per questo ho frequentato l'Idhec e ho seguito un corso di recitazione, solamente per capire come dirigere gli attori. Poi però sono stato scelto per una piccola parte, poi per altre più importanti e sono diventato un attore.

Dopo tanti anni si ritrova a dover girare per promuovere il film, rilasciare interviste, subire domande. Che effetto le fa?
Sono contento di esser qui ma sicuramente questo è l'aspetto del mestiere che amo meno. La verità è che sono un contadino, vivo in campagna, la sera non esco, non vedo nessuno. Sto bene così.

Che rapporto ha con la vecchiaia?
M'infastidisce. Vorrei essere più giovane. Un amico una volta mi ha detto: dopo i sessant'anni, se quando ti svegli alla mattina non ti fa male da nessuna parte, è perché sei morto.

Non crede che il cambiamento di tono di Haneke potrebbe essere dovuto proprio al fatto di avere a che fare con lei?
Può darsi. Nel tempo trascorso insieme mi ha parlato molto, non solo del film ma del cinema e della vita in generale. Riguardo alle singole scene non eravamo sempre d'accordo. La scena della colazione, per esempio, me l'ha fatta fare come volevo ma poi mi ha spiegato che lui aveva tutta un'altra idea di come doveva essere recitata. E in quel caso come in altri, aveva ragione lui. Io ero concentrato sul mio personaggio ma lui aveva presente il film nel suo insieme, che è la cosa più importante. Ha sempre avuto ragione lui.



INTERVISTA A EMMANUELLE RIVA

Quando ha ricevuto la sceneggiatura del film è stata subito catturata o ha temuto che fosse troppo doloroso da interpretare?
Me lo chiedono in molti. Per me la risposta è molto semplice: veniva da un regista straordinario, per cui in primo luogo c'era la felicità di essere stati contattati da lui, e in secondo luogo quello di Anne era un personaggio molto bello, che sarebbe stato da matti rifiutare. Era impensabile rinunciare ad un tesoro così ricco. Oltretutto, è un argomento che tocca ognuno di noi, nessuno escluso, perciò ho detto in fretta di sì. E poi sentivo intimamente che potevo farlo: niente a che fare con la vanità, credetemi, ma avevo l'età per interpretare questo ruolo e la fiducia di chi me lo chiedeva. È stato un grande regalo, perché non capitano spesso ruoli del genere per attrici della mia età.

Haneke vi ha domandato espressamente una recitazione trattenuta, che non portasse in superficie i sentimenti. È stato più facile o più difficile del solito?
Dopo la prima scena, e dopo diversi ciak, Haneke è venuto da me e, parlando della mia prova, mi ha detto: "è molto bella, ma è troppo tenera." "Niente di sentimentale" è stata la chiave di recitazione richiesta. Vivere tutto all'interno e non mostrarlo non è facile, ma è molto più interessante. Tra i protagonisti di questo film, c'è un grande amore ma è un amore privo di sentimentalismi ostentati. Al punto che durante la malattia sia l'uomo che la donna conservano questo carattere, restano le stesse persone nonostante la situazione sia molto cambiata, e questa è la cosa che io trovo straordinaria. Per me - e ci penso ora per la prima volta - è forse meno difficile recitare in modo trattenuto che non mostrare il più possibile senza rischiare di scadere nella caricatura. Detto questo, come attori dobbiamo essere pronti a rispondere alle richieste del regista, qualsiasi esse siano.

Come giudica il gesto di Georges nel film?
Non voglio certo giudicarlo. Quello che so è che sua moglie desiderava la morte, è evidente, ha tentato di gettarsi dalla finestra, e lui sa bene che per lei è impossibile e intollerabile continuare a vivere in quel modo. Dapprima quindi rispetta la promessa di non ospedalizzarla e di tentare il più possibile di conservare la quotidianità anche in quelle condizioni, ma in seguito al secondo attacco e all'aggravarsi di Anne, la sua sofferenza, mista a delirio, è talmente insopportabile per entrambi, che lui fa quel gesto, ma non per sé, lo fa per lei. Credo che ogni caso sia diverso dall'altro, dunque non si può generalizzare. Ci sono sicuramente dei casi in cui una cosa del genere può accadere. Nel film, il personaggio di Trintignant non pare aver premeditato il gesto, o almeno non sapeva quando lo avrebbe fatto, solo forse che sarebbe toccato a lui, perché lei non era in grado di farlo da sola. Come avviene, con quel movimento che pare un abbraccio... beh, quel movimento è un capolavoro e quel gesto è un gesto d'amore. Da lì è nato il titolo, semplicemente perché sarebbe stato impossibile trovarne uno più adatto.

Com'è stato, fisicamente, interpretare una bella donna, amata e innamorata, che si ritrova in quelle condizioni estreme?
Non è stato difficile. Trasformarsi al servizio della storia, anche grazie all'aiuto della truccatrice, che ha fatto un lavoro straordinario (per esempio quando mi ha truccato per la scena della morte) era una cosa che mi interessava molto. Volevo essere verosimile e, nell'attore, esterno e interno ad un certo punto arrivano a confondersi, per cui se dovevo avere un braccio paralizzato, alla fine non riuscivo a muoverlo davvero. Haneke all'inizio aveva pensato di portarmi in giro per ospedali per vedere i veri malati, e io non ero contraria, ma poi passavano i giorni e non me lo domandava più ed è stato lui stesso a mostrarmi come fare. Per un attore, trasformarsi è appassionante e utile: un po' di cotone in bocca aiuta a entrare nel corpo di un personaggio con un'emiparesi, e così via, con altri piccoli trucchi, perché l'attore è tanto artista quanto artigiano.

Ha vissuto la stagione più creativa e sperimentale del cinema francese. Cosa ne pensa del cinema europeo del presente?
La vita sul pianeta è cambiata, in ogni aspetto, e il cinema riflette l'attualità, dunque oggi riflette l'amore ma anche il terrorismo e il male verso cui purtroppo stiamo lentamente tendendo. Non sono abbastanza cinefila per rispondere esaurientemente, penso che dovrei passare la vita dentro della sale buie per vedere chiaro. Ma vedo che ci sono tantissimi nuovi talenti in giro e soprattutto tante donne in Francia che si esprimono con grande creatività. Nonostante questo sono molto turbata dalle ferite mortali del nostro mondo e spesso scrivo delle poesie, che nascono proprio dal mio essere così violentemente colpita da ciò che accade.

C'è un terzo personaggio nel film, ossia l'appartamento e ciò che contiene. Come vi siete relazionati?
Abbiamo passato tutto il tempo dentro quel set, dunque ci siamo dovuti adattare e ne abbiamo sicuramente subito l'influenza. Haneke ha ricostruito l'appartamento dei suoi nonni, esattamente com'era nella realtà, con la cucina e il bagno così piccoli che ponevano non pochi problemi ai tecnici, ma noi ci siamo subito sentiti a casa. Io ho affrontato questo lavoro con grande passione, tutti i giorni, dall'inizio alla fine. Finite le ore di lavoro, però, tornavo alla mia vita normale, anche se, per non stancarmi troppo, tornavo a Parigi solo il fine settimana, altrimenti il caso della città mi avrebbe reso ancora più pesante un lavoro già faticoso per la natura del testo. Dunque ho praticamente vissuto sul set, nel mio camerino. Ha fatto bene alla mia concentrazione.

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