Advertisement
This Must be Italy

Paolo Sorrentino presenta This Must Be the Place, road movie con Sean Penn.
di Ilaria Ravarino

In foto Sean Penn in una scena del film This Must be the Place.
Sean Penn (63 anni) 17 agosto 1960, Santa Monica (California - USA) - Leone. Interpreta Cheyenne nel film di Paolo Sorrentino This Must Be the Place.

giovedì 6 ottobre 2011 - Incontri

Strano oggetto Sorrentino. Sarcastico, sfuggente, sempre un pezzo più avanti del suo interlocutore. I suoi film sono come lui e l'ultimo, This Must Be the Place, presentato a Cannes e in uscita il 14 ottobre, gli assomiglia moltissimo. È come se il pubblico, quello dei critici che hanno incontrato ieri a Roma il regista campano con lo sceneggiatore Umberto Contarello, davanti a Sorrentino si sentisse smarrito. Il triangolo delle Bermuda della poetica cinematografica italiana dell'ultimo ventennio (salotto – risata - sentimento) è sparito dalla mappa. Il navigatore non riconosce le coordinate satellitari. Siamo in Italia, almeno per quel che riguarda la biografia degli autori, ma sembra America. Nel cast c'è Sean Penn, la giovane figlia di Bono Vox, Eve Hewson, c'è la maestosa Frances McDormand, c'è David Byrne dei "Talking Heads". C'è una storia che ha a che fare con un viaggio, ma inutilmente si prova a puntare la bussola su Rossellini («Si può dire che questo sia il suo Viaggio in Italia?»): il viaggio di Sorrentino non è costretto nella verticalità peninsulare del Nord verso/contro Sud, il viaggio è continentale, dall'Irlanda all'America, e richiama semmai «Una storia vera di David Lynch, il mio riferimento inconscio specialmente per l'elemento della lentezza, che sarebbe nemica del cinema secondo un noto luogo comune». C'è un tema, l'olocausto, che scomoda illustri paragoni: perché la guerra e il nazismo sono argomenti che si riaffacciano periodicamente nei contenuti del nostro cinema. Ma ancora una volta Sorrentino è un pezzo avanti. L'olocausto che racconta lui non ha niente a che vedere con quello raccontato da altri: «Sarebbe presuntuoso dire che questo sia un film sull'olocausto. È solo un piccolo contributo all'argomento».
E allora non stupisce che la domanda che ricorre più spesso, rivolta al regista, allo sceneggiatore e ai produttori Andrea Occhipinti e Nicola Giuliano, sia una: «Ma questo, secondo voi, è un film italiano?».
Sorrentino: Certo che lo è. È italiano perché l'abbiamo fatto noi: un regista, uno sceneggiatore, dei produttori, un direttore della fotografia, una troupe di italiani. E poi cosa vuol dire, cosa sarebbe questa italianità? Vi ponete una questione cervellotica, non stilistica. L'importante è avere una buona idea e supportarla con un buon film: che questo sia un processo italiano, tedesco o americano, è un fatto residuale.
Contarello: La domanda corretta sarebbe un'altra: «Da cosa si capisce che è un film di Sorrentino?». La risposta è: da tutto. E per sillogismo, essendo Paolo italiano, anche il film è italiano.

Come si è imbarcata una produzione italiana in un'avventura del genere?
Giuliano: Tutto si è messo in moto dopo il sì di Sean Penn, che ha risposto alla nostra proposta dopo appena tre giorni. Le prime difficoltà sono arrivate quando ci siamo trovati a gestire un budget grande, internazionale, per un film preparato in Italia e girato oltre Manica e oltre oceano. L'ostacolo più grande da superare è stato quello relativo all'architettura finanziaria del film. Con un regista così apprezzato, e un attore premio Oscar come Penn, ci sarebbero stati modi più facili per portare a casa il risultato: per esempio, cercare una Major che lo finanziasse. Abbiamo preso in considerazione questa ipotesi, ma poi l'abbiamo abbandonata: affidarsi al capitale di uno Studio, se da un lato facilita il processo produttivo, dall'altro interviene pesantemente sull'indipendenza creativa. Per fortuna 'Lucky Red', 'Medusa', Banca Intesa e coproduzioni francesi e irlandesi sono riuscite a mettere insieme un budget completamente europeo, a garanzia dell'indipendenza dello sguardo di Paolo.

Puntate agli Oscar?
Nicola Giuliano: L'accordo con la Weinstein Company è recente e comporta una serie di negoziazioni. Non sappiamo se riusciremo ad arrivare a un'uscita tecnica, a dicembre. La Weinstein è comunque intenzionata a spingere il film per gli Oscar e ha già stanziato una cifra per la campagna.

Perché Sorrentino ha scelto di parlare di Olocausto?
Sorrentino: È sproporzionato affermare che ho fatto un film sull'Olocausto. Diciamo che il film si muove su quello sfondo, che offre un largo ventaglio di osservazione sul comportamento umano e sulle sue degenerazioni. Avere certezze o ragione di quanto sia accaduto a quel tempo, del resto, è impossibile.
Contarello: Più che un film su cosa così enorme, è la storia di un uomo che impara qualcosa di molto piccolo, qua e là, su un fatto tanto grande. Cheyenne, il nostro protagonista, è uno che suonava e cantava negli stessi anni in cui la gente si documentava sull'Olocausto: tutto quel che apprende, lo impara come se fosse una specie di analfabeta.

Com'è stato lavorare con Sean Penn?
Sorrentino: Il lavoro con lui ricalca quello che ho fatto con altri attori in passato, con una variante: da subito ho avuto l'impressione che Penn fosse in grado di fare qualsiasi cosa volessi. Il che è anche pericoloso, perché con uno così ti illudi ti poter andare dappertutto. E non è detto che la massima libertà produca il massimo effetto. In sceneggiatura avevamo una definizione già molto precisa del suo personaggio: il carattere, il trucco, il look. Penn ha portato comunque moltissimo a Cheyenne: la voce in falsetto e quel modo di camminare “dei ricchi che si sentono in colpa di essere diventati ricchi", come dice lui.

Perché Cheyenne parla in falsetto? E cosa accadrà alla sua voce in doppiaggio?
Sorrentino: Ci piaceva quel modo di parlare un po' al rallentatore, che Penn ha tradotto usando il falsetto: una scelta del tutto congrua con un personaggio con un lato femminile tanto presente. Ci pareva una decisione plausibile, e anche bella. Il doppiaggio mi sembra buono, come mi sembrano buoni tutti i film doppiati dalle nostre eccellenti voci. Ovviamente preferisco la versione in lingua originale.

Il manifesto del film è un omaggio a La città delle donne di Fellini?
Sorrentino: Dovreste parlarne col grafico.

Come ha realizzato la lunga sequenza musicale con David Byrne?
Sorrentino: L'idea di una scenografia che si muove è arrivata perché cercavo qualcosa di plausibile con il tipo di performance di Byrne. È stato piuttosto complicato, ha richiesto parecchio tempo per la realizzazione. Dato che detesto l'isteria della regia quando si vedono i concerti, mi pareva giusto restituire nel mio film un minimo di calma a quella performance dal vivo.

Perché avete scelto come titolo del film una canzone dei Talking Heads?
Sorrentino: Perché ci piaceva, e aveva a che fare con uno dei nostri temi: la ricerca di un posto preciso.

Nel film si toccano molti argomenti: ma lei cosa voleva raccontare di preciso?
Sorrentino: Come spettatore non amo i film che per un'ora e mezza ti raccontano una cosa sola. Penso che il film sia un'occasione per mettere più carne al fuoco possibile, e per noi in questa storia c'erano molteplici elementi di interesse: personaggi con certe caratteristiche, il racconto dell'assenza di un rapporto affettivo fra un padre e un figlio, lo sfondo storico dell'Olocausto visto dal punto di vista di un uomo di oggi, e la musica. Abbiamo poi cercato e trovato per il film una struttura rara e pericolosa, in due atti anziché in tre: un film diviso in due segmenti molto separati tra loro.
Contarello: Ma soprattutto è un film che nasce dal desiderio e dalla felicità di metterci dentro tutto quel che ci piaceva. È un'operazione che si può fare solo quando dietro alla macchina da presa c'è un autore con una straordinaria capacità di sintesi visiva.

Ci sono elementi autobiografici nel film?
Sorrentino: Sì e lo dico con pudore, perché detesto questa moda imperante del parlare di se stessi.

La serenità sul finale del film indica un nuovo corso del suo cinema?
Sorrentino: Non so. Non mi piace guardarmi indietro e fare analisi e bilanci. Per me il film virava spontaneamente nella direzione del romanzo di formazione compiuto. Rispetto a Il Divo ho cercato la semplicità: per ovvie ragioni quel soggetto ci aveva fatto addentrare nella complessità dei fatti italiani, fatti spesso indecifrabili. Avevamo bisogno di una vacanza e questo film è stato una lussuosa vacanza per tutti.

Una bella vacanza anche dall'Italia. Che farà adesso: rimane o espatria?
Sorrentino: La verità è che si ha sempre voglia di una vacanza... La realtà italiana è un serbatoio ricco, per chi come noi è in cerca di storie da raccontare. Sono convinto che il cinema italiano sia destinato a diventare, quando se lo potrà permettere, più importante di quanto lo sia adesso. Forse, però, ancora non se lo può permettere.

Gallery


{{PaginaCaricata()}}

Home | Cinema | Database | Film | Calendario Uscite | MYMOVIESLIVE | Dvd | Tv | Box Office | Prossimamente | Trailer | Colonne sonore | MYmovies Club
Copyright© 2000 - 2024 MYmovies.it® - Mo-Net s.r.l. Tutti i diritti riservati. È vietata la riproduzione anche parziale. P.IVA: 05056400483
Licenza Siae n. 2792/I/2742 - Credits | Contatti | Normativa sulla privacy | Termini e condizioni d'uso | Accedi | Registrati