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The Mann Family

Michael Mann e la figlia Ami presentano Texas Killing Fields, in concorso a Venezia.
di Ilaria Ravarino

Il photocall del film Texas Killing Fields, in concorso alla 68. Mostra del cinema di Venezia.
Ami Canaan Mann . Regista del film Le paludi della morte - Texas Killing Fields.

venerdì 9 settembre 2011 - Incontri

Protettivo come tutti i padri, Michael Mann ha accompagnato oggi al Lido la figlia Ami in competizione con Texas Killing Fields, suo secondo film da regista. Anche l’altra figlia, Aran, è coinvolta nel progetto: muove i primi passi come scenografa e produttrice, ma a differenza della sorella ha preferito restare nell’ombra. Il film di Ami è stato accolto benevolmente in sala ma senza entusiasmi, e l’incontro con la stampa ha l’aria di un routinario colloquio genitori-studenti. Alle domande la regista lascia parlare sempre per primo il padre produttore, mentre lo sceneggiatore Don Ferrarone, tostissimo ex agente delle forze speciali diventato dal 2000 una delle penne più richieste di Hollywood, cerca di rendersi invisibile. La studentessa ha fatto un discreto esame, è stata promossa, e non c’è motivo di rubarle la scena.

Il film è tratto da una storia vera, come l’avete adattata?
Ami Mann: L’idea è stata di Donald, quindi è giusto che parli lui. Donald?
Ferrarone: Mentre lavoravo per le Federal Law Forces nel Texas Meridionale, conobbi un detective che si occupava di aiutare quelle ragazze. C’erano stati degli omicidi, senza una precisa scena del crimine, e come spesso accade in questi casi erano rimasti tutti irrisolti: Texas City è circondata da una palude, e gli omicidi avvenuti in quella zona morta erano impuniti. In quell’area ho visto poster immensi con le immagini dei resti delle vittime che nessuno aveva nemmeno riconosciuto, e quel detective si era preso la responsabilità di dedicarsi proprio alla risoluzione di quei crimini. Era un uomo dalla grande forza spirituale, ed è questo che mi ha convinto a seguire la sua storia: non avevo mai sentito niente di cosi emozionante, quella vicenda mi ha ossessionato e così ne ho parlato con Michael Mann.
Michael Mann: Quel che mi ha attirato nella storia è stata la natura ossessiva di un ambiente come popolato da fantasmi. Molte delle vittime non erano di alto profilo sociale, erano stati commessi dei crimini ma non si era insistito per applicare la legge e risolverli.
A. Mann: Donald ha scritto la sceneggiatura dieci anni fa, poi io l’ho letta e ho cominciato a fare ricerche. Lessi un articolo corredato di una mappa che indicava i luoghi dove erano state trovate le vittime, e immagini con i loro volti. Erano tutte ragazze, quasi bambine, e c’erano anche foto di quando andavano a scuola: rimasi impressionata dal loro sguardo dritto in camera, sembrava mi guardassero. Vedere sulla mappa così tanti omicidi, così tante vittime, mi ha trasmesso un senso di angoscia ubiquitaria. Mi sono sentita in dovere di aiutare queste ragazze attraverso il racconto delle loro storie.

L’assenza delle ragazze è forte nel suo film: ha pensato di rappresentarle come fantasmi?
A. Mann: Ce lo siamo chiesto: dobbiamo trattare la storia come se fosse un racconto di fantasmi? In un certo senso sì. Certamente volevamo sedurre il pubblico, fargli desiderare di sapere cosa fosse accaduto.

Come è stato il lavoro sul set?
M. Mann: Il lavoro in generale è stato molto emozionante: le immagini delle vittime avevano commosso tutti, Ami addirittura aveva riconosciuto tra loro anche una ragazzina con cui andava a scuola. Questo però non ha ridotto in alcun modo la sua autorità sui personaggi maschili. Ami ha mostrato agli attori come lavorano davvero i detective per fargli capire cos’è e come funziona un’indagine per omicidio.
A. Mann: La mia preoccupazione era quella di rendere il mondo di Texas City il più possibile realistico, autentico. Per questo il sabato mattina spedivo i miei attori all’obitorio, perché volevo che fossero dedicati completamente alla storia e avessero rispetto per quel che era accaduto nella realtà.

Ha usato anche attori locali?
A. Mann: Ho avuto fortuna perché avevo a disposizione grandi attori, la maggior parte dei quali era originaria della Louisiana o del Texas.

Come ha lavorato per ottenere lo stile visivo del film?
A. Mann: Ho guardato molte fotografie e ho rivisto Pic nic a Hanging Rock, che è uno dei miei film preferiti. Con mia sorella, che era la production designer, sono andata a fare i sopralluoghi per le location: abbiamo passato ore a scattare foto a quegli alberi scheletrici, perché abbiamo subito capito che sarebbero potuti essere una perfetta metafora visiva degli omicidi. Abbiamo girato il film in Louisiana, ma in un primo momento pensavamo al Texas: tra le due località ci sono molte analogie, c’è una zona paludosa e una fluida continuità di acqua, terra e alberi. In sostanza, è stato il paesaggio a dirmi dove mettere la macchina da presa.

Cosa pensa dell’attitudine di Hollywood a spettacolarizzare le storie di violenza?
A. Mann: La mia è una storia in cui le vittime vengono prese sul serio, e non usate come veicoli per emozionare lo spettatore. Anche per questo ho usato le loro voci nel film, perché volevo che si sentisse la loro presenza.

Come ha lavorato con la giovanissima Chloë Moretz?
A. Mann: Era una meraviglia, aveva 12 anni quando abbiamo girato il film e già controllava la sua recitazione. L’abbiamo presa subito.

Qual è la lezione più importante che ha imparato da suo padre?
A. Mann: Per me è stato vantaggiosissimo anche averlo come produttore. Essendo lui stesso un regista, ha saputo risolvere tutti i problemi logistici e finanziari del film nel rispetto delle esigenze estetiche e creative. L’ho osservato mentre faceva il giocoliere con le priorità della produzione, è stata una lezione preziosa.

Michael Mann, quale pensa sia l’apporto di Ami al genere thriller?
M. Mann: In famiglia lavoriamo tutti sodo e Ami era un’adolescente quando ho iniziato: è praticamente cresciuta sui set. Ma la sua prospettiva è unica, come unici sono gli elementi di natura visiva del suo film. Inoltre è una madre, e questo la porta ad avere un rapporto diverso con le vittime e con i detective. Questa storia è unica nel suo genere: il lavoro fu offerto anche a Danny Boyle, ma toccò ad Ami farlo tempo dopo.
Ferrarone: La prima volta che mi sono seduto al tavolo con lei ero molto nervoso. Ma prima ancora che potessi aprire bocca per parlarle della sceneggiatura e di come avevo intenzione di procedere, lei mi parlò illustrandomi il suo punto di vista sul film. Disse esattamente quella che era la mia prospettiva.

Perchè la famiglia Mann è così attratta dai thriller?
M. Mann: Non sono particolarmente affascinato dai gialli. Ne ho fatti parecchi, certo, ma quel che mi attrae più di tutto in una storia è la sua qualità drammatica. Nei gialli i conflitti, la polarizzazione tra bene e male, è estrema: quella del detective è una figura seduttiva, è un personaggio che per definizione cerca informazioni e risposte, un agente incredibile per trascinare il pubblico nelle storie.
A. Mann: Non parlo per lui ma per me: trovo irresistibile affondare nel mondo crimine e cercare di comprenderlo.

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