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Petrucciani, il piccolo grande uomo

Il figlio Alex e il regista Michael Radford presentano il bio-pic sul celebre jazzista.
di Ilaria Ravarino

Alexandre Petrucciani e Michael Radford al photocall del film Michel Petrucciani - Body & Soul.
Michael Radford (78 anni) 24 febbraio 1946, New Delhi (India) - Pesci. Regista del film Michel Petrucciani - Body & Soul.

martedì 7 giugno 2011 - Incontri

Michel Petrucciani era alto meno di un metro e suonava il pianoforte come pochi uomini sulla terra. Simili misure ha suo figlio Alex, diventato anche lui musicista dopo aver perso il padre, a 9 anni: «Lui era il mio eroe», dice sicuro. Anche se, aggiunge poi senza imbarazzo, non ha mai avuto il coraggio di suonare davanti a lui. Ora che la vita di Michel Petrucciani, uno dei più apprezzati jazzisti del mondo, è diventata un film-documentario in sala dal 22 giugno, per il figlio Alex è arrivato il momento di riappacificarsi con il mito paterno. Un uomo grande e inarrivabile, carismatico e vitale, talentuoso e intelligente, così piccolo e così terribilmente ingombrante: «Quando ho visto per la prima volta il film è stato come osservare mio padre con gli occhi di qualcun’altro – ha detto Alex – e dopo tanti anni di distanza dalla sua musica, ho sentito il bisogno di conoscerla meglio. Non solo per gestire la sua carriera, ma anche per raggiungere i miei stessi obiettivi». A fianco ad Alex e alla guida di Michel Petrucciani – Body and Soul, distribuito in sole 16 copie, c’è il regista e sceneggiatore inglese Michael Radford, nominato all’Oscar nel 1996 per Il Postino e tornato, con questo film, al suo primo amore: il documentario.


MICHAEL RADFORD

Prima di girare il film, conosceva la musica di Petrucciani?
M.R.: La musica sì, ma non l’uomo. Prima di preparare il film non ne sapevo nulla. Ed è stata una scoperta incredibile. Michel è una persona che avrei voluto conoscere, un uomo dotato di un gradissimo talento: il talento di vivere. La sua storia è una lezione per tutti. Il film nasce per raccontare la sua gioia.

Ha avuto difficoltà nel reperire i materiali?
No. Ho chiesto ad amici e parenti di Michel di darmi tutto il materiale possibile su di lui: home video del matrimonio, filmini in cui Michel si droga... l’aspetto più difficile è stato cercare qualcosa in più nelle immagini che mi venivano consegnate. Non volevo fare un film televisivo, o informativo: ho cercato di scavare in profondità, cercando l’uomo. Faccio un esempio. A un certo punto trovo un’intervista in cui un giornalista chiede a Michel: «Com’era la tua vita a New York?». E lui risponde: «Andavo ai musei». L’intervista era stata montata fin qui. Poi però c’è un silenzio lunghissimo, almeno 30 secondi, dopo il quale Michel dice: «Prendevo molta droga in quel periodo, troppa». Ecco, in quel silenzio c’è tutto il personaggio. Non volevo fare l’agiografia di un santo: volevo momenti capaci di raccontare la sua personalità. Anche per questo, nelle interviste che ho fatto alle persone che l’hanno conosciuto, ho lasciato parlare a ruota libera chi avevo davanti. Sono tutte persone che trovo interessanti, aldilà dei loro ricordi.

Come ha scelto la musica del film?
Con un approccio istintivo. Il documentario è un gran lavoro di montaggio e la musica è stata scelta in base alle immagini che avevamo deciso di usare. All’inizio è virtuosa, tecnicamente brillante, come deve essere la musica di un giovane molto dotato. Poi cambia, perché Michel cercò presto altre strade: diventa fusion, più alla moda. E infine è una musica semplice e profonda, fatta di poche note: sapevo che l’ultimo brano del film sarebbe stato "Cantabile", mi fa sempre piangere quando l’ascolto.

C’è una ragione per cui ha selezionato soprattutto brani brevi?
Non volevo che fosse un film musicale o un film per persone che conoscessero già Michel. I brani lunghi avrebbero levato spazio alle parole, e sarebbe stato un peccato per gli spettatori che volevano conoscere meglio il personaggio.

Lei ha una preparazione musicale di qualche tipo?
Se avessi avuto talento per la musica, non avrei fatto il regista. Ho suonato il sax e l’oboe ma non avevo un grammo di talento. Però amo ancora la musica, in tutte le sue forme.

Da Il Postino in poi, lei è molto legato all’Italia: da dove viene questo amore?
A 17 anni, in un pub di Oxford, una zingara mi lesse la mano. Disse che avrei avuto il successo in Italia, ma io non le diedi peso. Poi però cominciai un lavoro sulla musica a Napoli, e finii per sposarmi in Italia. Anche mio figlio è nato qui. E qui ho conosciuto Massimo Troisi, con cui ho condiviso 8 bellissimi anni di amicizia.

Che ricordo ha de Il Postino?
Bellissimo, era un momento molto chiaro della mia vita. So che in Italia è diventato una specie di classico, anche se in fondo io vorrei lasciarmelo alle spalle.

A che punto è il suo film La guerra dei vulcani?
In sospeso, credo per motivi politici. Ne avevo parlato con la Medusa, che poi ha cancellato il progetto.


ALEX PETRUCCIANI

Cosa ha pensato quando ha visto il film?
A.P.: Conoscevo molti aspetti di mio padre, ma non l’avevo mai visto rappresentato in questo modo. Vedendo il film mi sono reso conto che papà aveva pregi e difetti come tutti gli uomini del mondo: credo che Michael abbia fatto un gran bel lavoro, del resto non deve essere facile per un regista distinguere le notizie vere su mio padre dalla leggenda.

Che padre è stato Michel Petrucciani?
È stato il mio eroe, un uomo straordinario, dalla grande volontà e personalità. Poteva sembrare un po’ divo, magari, ma non lo era mai con me. Un uomo sulla sedia a rotelle, ma che sa perfettamente di essere straordinario, può mettere in difficoltà il prossimo: e questo, all’interno della famiglia, a volte creava qualche fastidio. Io non ho una vita fantastica come la sua, ma sono qui, ho 21 anni, e sono contento.

Che rapporto ha lei con la musica?
A nove anni mi rifiutavo di pensarci, non volevo competere con mio padre, mi vergognavo. Ma la musica è un dono di famiglia, e non potevo farne a meno. Così a 16 anni mi sono innamorato del rock: volevo essere come Hendrix. Poi ho capito che con la chitarra non me la cavavo abbastanza bene, e alla fine ho deciso di fare musica elettronica, che è un genere con meno difficoltà tecniche: puoi far quel che vuoi, creare sinfonie, un’infinità di suoni anche pazzi.

Ha mai pensato di suonare insieme a suo padre?
Mai. Lui voleva che io suonassi il violino, ma in due anni non l’ho mai toccato. In realtà non ho mai suonato finché non è morto.

Ci sono altri doni di famiglia che ha ereditato?
Ho una ragazza bellissima. Quindi, forse, il fascino...

Che tipo di malattia la accomuna a suo padre?
Si chiama osteogenesi imperfetta, in pratica il calcio non attecchisce alle ossa. E quindi non cresciamo. È una malattia genetica, le cure sono sperimentali. C’è chi vorrebbe cancellare questa malattia manipolando la genetica. Ma entrano in gioco molti problemi etici. Noi non ci sentiamo né fragili, né diversi dagli altri. Certo, forse dalla vostra prospettiva possiamo sembrare così…

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