La morte secondo Lars Von Trier, fine ultimo di tutta la razza umana descritta attraverso due "[i]eroine[/i]" che hanno poco e nulla degli stilemi dell'eroe letterario e cinematografico al quale si è abituati a pensare.
Nella prima parte ci mostra la [b]Dunst [/b]nelle vesti di sè stesso: la sua depressione è la depressione di Von Trier, la sua difficoltà a vivere, camminare, affrontare da sola le piccole difficoltà di ogni giorno, sono quelle del regista. E la steadycam usata per tutta questa parte del film, con il suo costante movimento, non fa altro se non sottolineare le turbe interiori della protagonista e dell'uomo stesso, dietro la macchina da presa.
E’ poi il momento di una intensa e bravissima [b]Gainsbourg [/b], nella seconda parte.
In lei, Von Trier, mostra l'altra parte di sè: quella che vorrebbe poter controllare tutto, quella attenta, scrupolosa, ansiosa eppure buona che vorrebbe poter raccontare d'un'altra fine per l'umanità.
E' in questa parte del film, più che nella prima ([i]eccezion fatta per i dieci minuti di prologo iniziali[/i]) che la fotografia del film si sublima donandoci vere gemme artistiche come quella raffigurante la Dunst stesa nuda, su di una roccia, al chiarore notturno di Melancholia.
Ed è sempre nella seconda parte del film che si ha la disgregazione delle convinzioni sociali.
L'ottimista [b]Kiefer Sutherland [/b]crolla su sè stesso di fronte all'ineluttabilità di un presente che con tutte le forze aveva sperato di scongiurare aggrappandosi ad una scienza che risulta fallace. Ed appare evidente, in questo senso, la sfiducia nichilista nei confronti del positivismo e la vittoria del primo sul secondo.
La razionale [b]Charlotte Gainsbourg[/b] si sgretola di fronte la morte, cercando di controllare anche questo evento nel provare ad organizzarne l'accoglienza con un bicchiere di vino in terrazza accompagnati dalla Nona di Beethoven. Proprio quell'Inno alla Gioia, ode romantica alla speranza, che appare agli occhi del regista come "[i]una grande stronzata[/i]". Non c'è speranza. Non c'è assoluzione. Non c'è altro modo per finire se non accettando la fine come unica via possibile. Perchè "[i]la vita sulla Terra è cattiva. Non c'è motivo di piangere per essa[/i]" convinzione nata dalla superbia di un uomo ([i]il regista[/i]) che per bocca dell'attrice dichiara di "[i]sapere le cose[/i]" non lasciando alcuna possibilità di discussione alla Gainsbourg, suo alter ego, nè tantomeno allo spettatore ammutolito da tanto nichilismo.
E quindi Wagner e non quello trionfale della Cavalcata delle Walchirie ma quello struggente del Tristano ed Isotta.
Gli unici due aspetti che non trovano un crollo della propria dignità di fronte alla morte incombente sono proprio la Dunst che ritrova forza dall'approssimarsi della fine e il bambino, suo nipote, l'occhio ingenuo dell'individuo che confida che tutto andrà bene perchè al sicuro sotto una capanna di bastoni che lui crede magica.
E' l'essere ancora non sgrezzato dal contatto con la società, lo sguardo naturalistico che Rousseau riservava all'uomo selvaggio, buono perchè inconsapevole della cattiveria, dignitoso perchè dignitosa è la natura nella quale soltanto si specchia.
E’ solo in punto di morte che Lars Von Trier concede spazio ai sentimenti positivi: la stretta di mano fra le due sorelle è toccante e lo è ancora di più se si pensa che, per il regista, tale concessione all'amore possa trovar luogo solo in prossimità della catastrofe.
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