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Nella pelle di Almodóvar

Il regista a Roma con Banderas ed Elena Anaya per presentare il suo nuovo film.
di Ilaria Ravarino

In foto il cast di La pelle che abito durante la presentazione del film a Roma.
Pedro Almodóvar (Pedro Almodóvar Caballero) (74 anni) 25 settembre 1949, Ciudad Real (Spagna) - Bilancia. Regista del film La pelle che abito.

mercoledì 21 settembre 2011 - Incontri

Metti una mattina con Pedro Almodóvar. Caffè e pasticcini in terrazza, un affaccio mozzafiato su Roma, una giornata calda, pigra e clemente. Lui, il Maestro, si presenta puntuale in camicia a fantasia maculata e grandi occhiali da sole che, educatamente, si toglie per salutare la stampa. Lo seguono i suoi attori, il figliol prodigo Antonio Banderas tornato a recitare per lui dopo 20 anni, e la minuta Elena Anaya: ma gli applausi sono tutti per il regista spagnolo. In sala c’è un clima conviviale, quasi familiare, Almodóvar parla a ruota libera: «Fatemi domande in italiano, tanto lo capisco», dice. E poi ci ripensa: «Italiani e spagnoli sono sempre stati sicuri di potersi capire perfettamente, pur parlando lingue diverse. In effetti penso che le relazioni tra i nostri popoli si basino su questo, un eterno misunderstanding». È allegro Almodóvar, anche se il suo La pelle che abito, pellicola inaspettatamente dark passata al Festival di Cannes e al cinema dal 23 settembre, ha diviso la critica. Tanti vorrebbero vederlo tornare alla commedia. Lui ci sta pensando. Ma prima, si capisce, vorrebbe lasciare al pubblico il tempo di «metabolizzare», come dice Banderas, la sua ultima creatura. Che presto arriverà anche in America: «So che questo è un film che sconcerta. Non giudicatelo appena usciti dalla sala. Portatevelo a casa, dormiteci sopra e vedrete che il giorno dopo ne avrete un’impressione diversa. E se non sarà così, non importa. Siate felici lo stesso».

Lei è regista, sceneggiatore e produttore: i veri autori non hanno bisogno di supervisione?
Almodóvar: Pensate che mi senta onnipotente quando giro un film? Certo che no. Anche in questo caso mi sono adeguato alle regole, ai vincoli e ai condizionamenti imposti dalla mia produzione. Sebbene possa sembrare un eccessivo accumulo di potere, io cerco di comportarmi con buon senso. Poi però ci sono degli ambiti su cui voglio decidere in totale autonomia, e questi ambiti sono innanzitutto il tono del film e il tipo di storia che voglio raccontare. Quindi anche il modo con il quale mi avvicino al genere e il modo con il quale, di solito, non ne rispetto le regole. L’aspetto visivo del film, le luci e i costumi, perché anche il colore di un vestito fa parte della narrazione. E la direzione degli attori, la musica da usare. Tutto questo non significa essere autoritario, ma avere le idee chiare. Quel che chiedo ai miei collaboratori è di accompagnarmi in tutti questi ambiti per portare a buon fine la mia visione. Il regista ha si autorità, ma anche responsabilità: se il film va bene, va male, se funziona o non funziona, me ne assumo io la responsabilità.

Perché ha scelto di raccontare un tema così ripugnante, con un tono così freddo?
Almodóvar: Questo film parla dell’abuso di potere, e un simile argomento non può che essere raccontato giocando con gli estremi. Però non lo definirei freddo, ma austero e sobrio. Ho evitato volontariamente di inserire elementi splatter e gore, perché sarebbero stati insostenibili: ho cercato piuttosto la sobrietà nell’interpretazione e nella messa in scena, e credo di aver ottenuto così un effetto ancora più potente. Oltre al tema dell’abuso di potere trovo centrale anche quello dell’istinto di sopravvivenza, rappresentato dal personaggio di Elena, e quello dell’identità.

In che senso il suo film affronta il tema dell’identità?
Almodóvar: Gli sviluppi della scienza, progressi fino a qualche anno fa inconcepibili, non ci consentono ancora di manipolare l’identità delle persone. L’identità è qualcosa che va oltre l’immagine, oltre il corpo, è intangibile e incorporea, resiste a qualsiasi manipolazione. Il messaggio del film per questo non è ripugnante, ma buono: ci dice che una persona non muta, nonostante viva sulla sua pelle cose terribili.

Per gli attori come è stato lavorare con Almodóvar?
Anaya: Più che un regalo è stato un sogno tornare con lui dopo Parla con lei. Ho capito subito che il personaggio che Pedro mi stava offrendo era una sfida e recitare un personaggio che lui aveva in testa da dieci anni è stato un onore. E questo nonostante Pedro abbia fama di essere esigente e duro con gli attori. È stata un’esperienza gratificante di cui sono orgogliosa e felice.
Banderas: Qualunque cosa accada nella mia vita non potrò mai dimenticare cosa abbia significato per me lavorare con Pedro. È stato un regalo, come la maggior parte delle esperienze che ho vissuto con lui. Lui è stato l’uomo che ha rotto e che continua a rompere le regole del gioco cinematografico, che esce dagli schemi del cinema spagnolo tradizionale, che rischia, per questo, e a volte ne paga il prezzo. E ne è cosciente: sa bene che quel che propone al pubblico deve essere metabolizzato, non può essere accettato subito. Pedro in vent’anni non è cambiato, la sua è pura creatività e lo ritrovo adesso come allora intento ad esplorare, a spingersi in territori complessi. Recitare in questo film non è stato facile: la storia si muove in micromondi dettagliatissimi e tradurli in un’interpretazione credibile è stato alquanto impegnativo. Ma come dicevo è stato un grande regalo, che conservo nella parte più importante della mia casa: il mio cuore.

Almodóvar è così esigente sul set?
Almodóvar: Non credo di essere particolarmente duro. Ma sono convinto che osservare attentamente i propri attori sul set serva a non farli sentire ridicoli. Bisogna dargli indicazioni anche con durezza, perché osino di più e acquistino fiducia.
Anaya: Pedro è famoso per come dirige i suoi attori. C’è stato un momento in cui mi ha detto: «Elena, a volte gli attori devono percorrere da soli un lungo corridoio, per poi affrontare il mondo reale. Ecco, in fondo a quel corridoio ci sono io». È stato sempre accanto a me sul set e io mi sono limitata a seguire le indicazioni che mi aveva dato a casa sua, nel corso del processo creativo.
Banderas: Ho fatto 85 film nella mia carriera, ma mi lancio nel vuoto solo con lui. Sono contento del risultato perché per me è stato come scoprire un registro nuovo, far risuonare in me note che non pensavo di avere, esplorare un territorio sconosciuto. Girare un film non è andare in vacanza o fare un campeggio: è un lavoro, il che significa anche incontrare persone con idee diverse dalle tue. Ma i risultati che ottengo con Pedro sono sempre maggiori di quelli che ricavo lavorando con chiunque altro.

Davvero non lo trova cambiato, dopo 20 anni?
Banderas: Prima di tutto non è che io e Pedro in questi anni non ci siamo mai visti, anzi ci siamo frequentati da amici. Forse l’ho trovato un po’cambiato in ambito professionale, nel senso che è diventato più minimalista nella forma, più pulito dal punto di vista concettuale, più profondo e serio nei contenuti. Capisco che film come Donne sull’orlo di una crisi di nervi o Volver facciano parte di una corrente che piace al grande pubblico, ma per me pellicole come Legami, La legge del desiderio o questo ultimo film sono i territori più interessanti della sua cinematografia: è qui che Pedro si sporca le mani, crea veramente, salta nel vuoto senza rete. È in film così che dilata la sua personalità, e questa è la sua grandezza.

Cosa ne pensate della chirurgia estetica?
Banderas: Nel film la chirurgia plastica è solo un dettaglio, è il mestiere del mio personaggio. Non è che non voglia parlare di questo argomento, ma per me non è la chirurgia la parte più importante della storia. È molto più affascinante l’esplorazione della sottile linea che nel mio personaggio divide lo psicopatico dall’artista: cosa fa quando uno schermo lo separa dalla sua creazione? Prova immediatamente il desiderio di saltarci dentro. Ecco, per me questa è una metafora della creazione artistica. Credo che più che innamorarsi del personaggio di Elena, lui si innamori della sua stessa opera: infatti mentre giravo le ultime scene del film pensavo a Leonardo da Vinci, e a cosa avrebbe provato se fosse andato a letto con la Gioconda. Morboso? Sì, un po’...
Almodóvar: Per me invece il tema della chirurgia è importante. In Spagna si dice che il viso è lo specchio dell’anima, ma ormai non è più così. Ora con la chirurgia si possono modificare i tratti del viso a volontà: non dico che sia un bene o un male, perché dipende da come la si usa, ma quel che è certo è che l’identità oggi non passa più per la pelle. La storia stessa del film nasce dalla storia vera di un chirurgo spagnolo, una stella della chirurgia plastica diventato uno sperimentatore di trapianti di volto, genere in cui oggi la Spagna è pioniera. Solo che nel mio film la sperimentazione è condotta da un uomo che indaga confini machiavellici, senza pensare agli effetti che i suoi test avranno sulla persona per cui l’operazione si trasformerà in una condanna terribile.

A quali film si è ispirato?
Almodóvar: Quasi tutti i riferimenti ad altri film sono frutto di riflessioni che ho fatto a posteriori. Durante la lavorazione mi sono naturalmente imbattuto in alcuni fantasmi della storia del cinema, Frankenstein o La donna che visse due volte di Hitchcock, o Occhi senza volto. Fantasmi cui ho dato il benvenuto, perché risuonassero nella mia storia. Ma non ho mai pensato di girare “alla maniera di”. Si tratta di influenze che ho subito, nel tempo, da spettatore.

Che ne pensa dell’abuso della chirurgia plastica tra i divi del cinema?
Almodóvar: Se facessi un film d’epoca, chiederei all’attrice di arrivare al provino con un naso corrispondente all’epoca che ho scelto. Intendo: se mi si presentasse con un nasino da ventesimo secolo, sarebbe anacronistico. Esattamente come scegliere il mobile sbagliato per una scena. Le direi: scusa, ma con questo naso è impossibile. Per fortuna io faccio film contemporanei, quindi che i nasi siano ritoccati o meno c’è posto per tutti. Certo, io cerco volti che corrispondano alle storie: qui per esempio c’è Marisa Paredes, che porta nel film le sue belle rughe. Ma il fenomeno della plastica in America è fin troppo diffuso: ho visto in copertina su Vanity Fair le donne di Elvis Presley, c’era la figlia e la nipote... giuro che la nipote sembrava più vecchia della nonna. Ecco, se dovessi fare una commedia a Los Angeles cercherei solo operate, anzi disperate, anzi donne disperate per trovare i soldi per operarsi. Sono certo che farei un casting meraviglioso.

Pensa che sarà candidato all’Oscar?
Almodóvar: Si saprà il 28, quando la Commissione spagnola deciderà i tre film che correranno per la candidatura. Speriamo...

Prossimi progetti?
Almodóvar: Ne ho tantissimi. La mia scrittura è più simile a quella di un romanziere che a quella di uno sceneggiatore. Scrivo cinque o sei storie insieme che mi accompagnano per anni, e alla fine ne scelgo due, quelle su cui sono andato più avanti. Le due che ho per le mani adesso sono entrambe molto mediatiche, quindi preferirei parlarne fra qualche mese. Quando in Spagna cammino per la strada - attività che ormai è il mio unico sport insieme al fare l’amore, anche se accade sempre meno - la gente mi chiede spesso di tornare alla commedia. Ecco. Forse una delle due storie cui sto pensando potrebbe essere proprio una commedia.

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