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L'ultimo Almodóvar: pausa, confusione o declino?

Il quesito è pertinente. Di Pino Farinotti.
di Pino Farinotti

Elena Anaya (48 anni) 17 luglio 1975, Palencia (Spagna) - Cancro. Interpreta Vera nel film di Pedro Almodóvar La pelle che abito.

lunedì 26 settembre 2011 - Focus

Pedro Almodóvar ha sessant'anni. È un momento decisivo per un artista. Meglio, può esserlo, perché c'è artista e artista, c'è evoluzione e maturazione. Costringere il regista di Calzada de Calatrava nel quadro di qualche definizione, o nel concetto di giudizio più o meno finale, è impossibile e anche avventuroso. Niente e nessuno riuscirà mai a imbrigliarlo. Tuttavia la sua "pelle che abito" –le virgolette sono il piccolo artificio a identificare la vicenda del film con quella dell'autore, meccanismo, in questo caso, naturale, visibile e legittimo- offre la sensazione di una carriera in stallo, ad essere prudenti e generosi. Trattandosi di uno dei più grandi autori del cinema contemporaneo, ecco il perché della prudenza: puoi aspettarti, il mese dopo, un altro scatto da fuoriclasse. Da queste righe emerge preventivamente che l'ultimo film di Almodóvar, presentato a Cannes, non è un ... intoccabile. La critica lo ha accolto in modo diseguale, ci ha chiacchierato sopra naturalmente, dividendosi, felice di dividersi, senza arrivare a una definizione univoca. È un grande film, è buono, è diverso... è brutto? Eccetera. Tuttavia un segnale arriva quando devi stringere, esporti con una sintesi. Nessuna testata ha attribuito alla "pelle" un numero alto di stellette. Grandi chiacchiere del recensore, passi e contrappassi, citazioni e letture, astrazioni, pubblici ministeri e difese e poi... due stellette. La pelle che abito non è un film ricordabile. Spero non venga ricordato, in futuro, come un segnale di declino. Penso a titoli come Tutto su mia madre e Parla con lei. Questo ultimo è molto lontano da quella qualità, non c'è alcun dubbio. Almodóvar naturalmente c'è, ma non nella sua parte migliore e garante. Prevale un eccesso scioccante e morboso. Mancano gli elementi vitali e felici dei momenti belli, la solidarietà, la comprensione, l'indulgenza sempre e comunque. Lo spagnolo si concede la parte meno nobile della sua dotazione. Una caduta.

Segnale
Si tratta di collocare la caduta. Un intervallo, uno stallo come ho detto sopra, una confusione, il segnale di un declino? Per gli artisti quei momenti arrivano. Le ragioni sono molte, complesse: fine dell’ispirazione, debolezza, ricerca di altro, o magari perdita della propria consapevolezza e del proprio destino. Oppure presunzione. E l’anagrafe quasi sempre non c’entra.
Pasolini scivolò malamente, alla fine, troppo concedendo alle proprie attitudini e al proprio recondito. E aveva poco più di cinquant’anni.
Eastwood (81 anni) migliora film dopo film. Toccando argomenti e sentimenti diversi, con energia e lucidità. Straordinariamente uniforme è Manoel de Oliveira (103 !) che continua a dispensare noia-di-qualità da quando c’era il muto. Senza segnali di rallentamento: è già sufficientemente lento. E non ha ancora finito. Fellini dichiarò lucidamente, e con uno dei suoi massimi capolavori, Amarcord, che era di fatto una magnifica autoretrospettiva, il momento dell’evoluzione. Da lì cambiò. E con lui i suoi autori. I titoli successivi, finali, possedevano sin troppe idee, ma senza la potenza di prima. E poi Villaggio e Benigni… non erano Mastroianni. Anche Fellini era giovane per un finale, ai tempi di Amarcord aveva 53 anni.

Discrezionalità
Ho già scritto, in precedenza, che Almodóvar e i Coen, fatte tutte le debite considerazioni sulla discrezionalità e l’arbitrarietà della classifiche e dei giudizi, sono i due autori che comandano l’era contemporanea. Qualche anno fa raccolsero il testimone da un’altra coppia: Scorsese e Wenders. In altri spazi ne spiegai le ragioni. Questi ultimi hanno abdicato, da quel ruolo di eccellenza assoluta, in modo diverso. La memoria immediata su Wenders va a reperire un grande titolo, Lisbon Story, forse come ultimo segnale di opera da storia del cinema. Poi il tedesco, classe 1945, l’uomo che aveva tanto cercato e trovato, a perfetto agio fra le grandi culture del Novecento quella tedesca e quella americana, l’artista che era ormai nella storia, ha deciso di fare solo ciò che gli piaceva: cortometraggi, documentari, la musica, il ballo. Altissima qualità. Privata. Scorsese (1942) nell’ultimo decennio, e anche prima, non era più quello di Toro scatenato, New York New York o dell’Età dell’innocenza. Nei penultimi anni ha dovuto farsi soccorrere da budget elefantiaci, negli ultimi non era più… Scorsese. I Coen (Joel 1954 e Ethan 1957) sono attivi e vitali, certo non declinano, fanno ottimi film, ma il sortilegio di titoli come Il grande Lebowski e Fratello dove sei, se non si è disperso, si è rarefatto.
Un altro anziano, Allen, classe 1935, è costante nella sua cadenza di quasi un film all’anno. Il concetto del sortilegio vale anche per lui: profilo sempre alto, agilità furbizia e fantasia. Anche titoli come Manhattan e Tutti dicono I love you si sono “dispersi e rarefatti”.

Chiudendo. La pelle che abito porta, come ho detto, il marchio del regista, ma non basta. Il film è sgradevole, ma “sgradevole” fa parte di Almodóvar, solo che non c’è la compensazione delle cose buone dette sopra. Un chirurgo con la sindrome di Frankenstein vede la moglie bruciare in un incidente. Le rifà una pelle nuova, a prova di fuoco. Poi c’è un uomo che diventa donna; transgenesi; vaginoplastica; sesso violento e anomalo, una madre da uccidere. E una violenza morbosa e trasversale che tutto tocca. Sono i fantasmi di Pedro, che diventano demoni. Speriamo che sia reversibile, che Pedro se ne accorga, che non divulghi tutto, che qualcosa la tenga rinchiusa nel suo intimo.
Sì, film da due stelle, ma una appartiene in automatico alla storia, e alla franchigia, del regista.

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