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Ritratto di famiglia in un interno

Killer Joe e lo psicodramma d'America.
di Roy Menarini

In foto una scena del film Killer Joe di William Friedkin.
Matthew McConaughey (Matthew David McConaughey) (54 anni) 4 novembre 1969, Uvalde (Texas - USA) - Scorpione. Interpreta Killer Joe Cooper nel film di William Friedkin Killer Joe.

domenica 14 ottobre 2012 - Approfondimenti

La tentazione autoriale, di fronte all'ultimo film di William Friedkin, è fortissima. E come potrebbe non esserlo, avendo a che fare con il regista che ha rivoluzionato il poliziesco (Il braccio violento della legge), l'horror (L'esorcista) e trasformato i limiti del visibile nel thriller (Cruising)? Eppure, stavolta, la responsabilità artistica di Friedkin va quanto meno suddivisa con Traci Letts, autrice teatrale che - come nel recente Bug - ha costruito per il maestro della New Hollywood un testo semplicemente formidabile, crudele come pochi e al tempo stesso venato di un'ironia paradossale.

Se dovessimo utilizzare gli strumenti dell'analisi del film, potremmo affermare senza tema di smentita che i primi dieci minuti di Killer Joe dovrebbero essere studiati nelle università. Attraverso pochi dialoghi e stacchi di montaggio volutamente secchi e brutali, lo spettatore viene scaraventato all'interno di una famiglia texana dove ogni orizzonte morale è scomparso, le idee più indicibili vengono esposte e analizzate come fossero argomenti di normale conversazione, e i personaggi in scena sono esplorati nelle loro caratteristiche più ciniche e insopportabili. Non contenti, però, Friedkin e Letts - man mano che il film avanza - compiono un gesto ancora più intelligente. Cominciano, cioè, a separare due "mali" differenti, quello di un nucleo famigliare eroso e ignorante, in cui la mancanza di cultura e di prospettive porta a scelte rovinose; e quello di un angelo sterminatore, un poliziotto killer, la cui psicopatologia ha origini molto più profonde e fa parte di quella galleria di assassini malati che il regista americano ha più volte affrontato nel corso della sua carriera.

Questi due mali sono profondamente americani. Uno è figlio della depressione civile, della crisi economica, di una "pancia" della nazione che non si è mai civilizzata del tutto e che a noi spettatori non americani appare sempre più stupefacente (si veda anche il ritratto del Texas in Le paludi della morte di Ami Canaan Mann, di ambientazione simile). L'altro, invece, è qualcosa di oscuro e minaccioso, una sorta di torsione psichica al cui confronto persino la famiglia di immorali profittatori e avidi mostri del quotidiano appare inerme.

Il fatto che Friedkin, poi, accentui l'aspetto rozzo e sporco dello stile, senza virtuosismi di sorta e rinunciando persino al suo marchio di fabbrica, ovvero l'inseguimento in auto (qui solo suggerito attraverso poche inquadrature e ricorrendo al suono degli incidenti di macchina), mostra un autore intelligente e tutto sommato umile, che si mette al servizio della storia e ne cava un cinema disossato, duro, senza compromessi. Friedkin, come in fondo Coppola e altri ex protagonisti della New Hollywood, abita ormai un mondo produttivo marginalizzato e autarchico, in cui tuttavia si può ricominciare a fare cinema come agli esordi, senza soldi e valorizzando al massimo ogni elemento del set. Una rigenerazione, a ben vedere.

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