Nel mondo dorato di Justin Bieber
di Gino Castaldo La Repubblica
Un tempo per arrivare a un documentario che narrasse la storia di un cantante ci voleva almeno una storia da raccontare. Orai tempi sono talmente veloci che, a diciassette anni appena compiuti, il bel bambolotto Justin Bieber che fa impazzire i ragazzini di mezzo mondo, ha già meritato un film-documentario, Never say never, da giovedì nelle sale italiane. Con una certa scafata avventatezza, la rivista "Time" l' ha inserito nella lista dei cento personaggi più influenti al mondo, e di primati ne ha già collezionati diversi. È un fatto che la biebermania, inquietante miscuglio di fiaba, mondo di Barbie, romanticismi adolescenziali e musica dalle facili palpitazioni, abbia sbancato a ritmi irresistibili, costruendo un fatato immaginario mondo canoro di cuoricini e pulsioni imberbi. Il regista John Chu, utilizzando tecniche da capogiro, è riuscito a infilarsi in questo delicato specchio dei nostri tempi abbagliando lo spettatore con riprese da concerto (al Madison Square Garden, esaurito, neanche a dirlo, in 22 minuti) talmente perfette e dettagliate da sembrare quasi irreali. Il film indugia sulle masse di ragazzine urlanti, metà delle quali con apparecchio per i denti, tutte concentrate a comporre con le mani la forma di un cuore, cerca di fotografare l' urlante delirio che accompagna ogni movimento del giovane Justin. Ma soprattutto compone con la massima accuratezza un ritratto edificante, strappalacrime, da libro Cuore del nuovo millennio. Justin è un bravo e bellissimo bambino, la madre lo segue a ogni passo, lei che fin da quando lo sentiva cantare nel paesino dell' Ontario da cui provengono, aveva capito che il suo piccolo aveva una missione da compiere, per portare luce, dice lei, per conto divino. Manager e protettori musicali come Usher, accanto a lui sembrano angeli che lavorano per il bene dell' umanità. Justin è buono, non trascura gli studi, si applica con istruttori privati anche nei pullman che lo portano da un impegno all' altro, tutto è dorato, innocente, montato in 3D con vertiginosa modernità di segni, messaggi di Twitter (dove Justin ha un seguito plurimilionario), icone che si moltiplicano sullo schermo e battono il ritmo di questa folle avventura, con molti frammenti da telecamerina domestica dove si capisce quanto fosse un predestinato e nulla al mondo poteva impedire che il destino arrivasse a compiersi. La vita del santerello è raccontata in modo perfetto, anzi con tecnologica perfezione. Di lui tutti parlano come se avessero a che fare con un tenero prodigio dal sorriso disarmante e femmineo, e non con una autentica miniera d' oro che produce ricchezza al ritmo di una multinazionale. E Justin? La cinepresa ce lo mostra in ogni modo, con feticistica invadenza, mentre blandisce e fa piangere le sue piccole fan, mentre canta sospeso in aria in una gabbia a forma di cuore, ma per assurdo, alla fine del documentario il più indecifrabile è proprio lui. Cosa pensa, chi è veramente il piccolo prodigio? Non si capisce, ma al momento è un mistero che forse conviene non svelare.
Da La Repubblica, 23 aprile 2011
di Gino Castaldo, 23 aprile 2011