“Vacanze Romane” in Vaticano. Ma se la principessa in crisi impersonata da Audrey Hepburn, dopo il vagabondaggio turistico-sentimentale tra la gente comune, sceglie di accettare la sua responsabilità e una vita “al servizio” del suo popolo, il cardinale Meliville, eletto a sorpresa Papa, acquista dalla sua evasione la certezza epicurea del “Λάθε βιώσας'”.
Il “Viaggio dell’Eroe” inizia stavolta singolarmente con una fuga. Melville è un eroe riluttante, stanato dal luogo dove si sentiva al sicuro, un eroe umano, troppo umano, sul cui viso lo straordinario Michel Piccoli imprime le sfumature dell’attesa, dell’incredulità, dello smarrimento, del panico. E tuttavia egli compie un percorso, affronta difficoltà, si misura con se stesso, e alla conclusione del viaggio riporta comunque un “elisir”, una consapevolezza che però non è quella che ci si aspettava.
Il viaggio di Melville impone un viaggio parallelo e antitetico anche agli altri,(lopsichiatra, i cardinali) bloccandone la dimensione temporale e psichica in un non-luogo che li riavvicina alla dimensione dell’infanzia, ai giochi e alle paure del puer, svelati da una strana partita che non è mai quella del tempo perduto (palla prigioniera non si gioca più), o da una inconfessabile boccetta di tranquillanti.
Melville rimette in discussione un atto già compiuto, un atto che porta il crisma del sacro; forse mette in discussione la volontà di Dio; non lo sapremo mai, però sappiamo che con pena, con fatica, egli ha compiuto la “sua” volontà di uomo.
Come Konstantin del Gabbiano –non è casuale la presenza di Cechov che in tanta parte della sua opera ha indagato il “mistero” dei “non adatti”- anche Melville non sa più qual è il suo posto nel mondo, è tormentato dal dubbio su quale sia veramente, profondamente, la sua vocazione e su quanto egli sia in grado di riconoscerla e realizzarla. Anche lui fa “tirar giù il sipario” al primo atto, non permettendo che la rappresentazione abbia luogo; ma, al contrario di Konstantin, alla fine del percorso egli evita il dramma accettandosi nelle sue insicurezze. Le tende del balcone che avevano ondeggiato su uno spazio vuoto, in absentia, infine si aprono, la rappresentazione ha il suo scioglimento politicamente e mediaticamente corretto, con la catartica esternazione sul palcoscenico più vasto del mondo.
Il fragile Melville sfida l’atto compiuto, spariglia le carte imprimendo una diversa conclusione alla partita e diventando per ciò stesso eversivo.
In una società spietata verso chi non nasconde i propri dubbi e le proprie ferite, che etichetta come perdente chi riconosce un limite, Melville rivendica il diritto di non voler essere innalzato, di sentirsi, -o essere,- inadeguato, il diritto di dire no.
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