Carnage |
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Un film di Roman Polanski.
Con Jodie Foster, Kate Winslet, Christoph Waltz, John C. Reilly
Titolo originale Carnage.
Drammatico,
durata 79 min.
- Francia, Germania, Polonia, Spagna 2011.
- Medusa
uscita venerdì 16 settembre 2011.
MYMONETRO
Carnage
valutazione media:
3,68
su
-1
recensioni di critica, pubblico e dizionari.
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La servitù della paroladi Ludwig1889Feedback: 200 | altri commenti e recensioni di Ludwig1889 |
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giovedì 24 settembre 2015 | |||||||||||||||||||||||||||||||||||||
In Waking Life si dice che un buon film non dovrebbe farsi schiavizzare dalla sceneggiatura. In Carnage accade proprio questo. Polansky fa cioè leva su una sceneggiatura superba, inscenata da interpreti d’eccezione, in un film narrativamente sopraffino ma registicamente impalpabile. Una coppia di genitori (Foster e Reily) ne invita un’altra (Winslet e Waltz) nel proprio appartamento per discutere di un incidente di giochi. Il film inizia con un’inquadratura statica a campo lungo su un gruppo di ragazzini in un parco. Ivi, accompagnato dal notevole brano minimalista di Alexandre Desplat (compositore in Grand Budapest Hotel e The Tree of Life), accade il fattaccio: una bastonata. Il resto del film si svolge nell’appartamento dove quattro, imbeccati dall’incidente, scatenano una catartica lotta di intensità progressiva volta alla reciproca sopraffazione psicologica. La sceneggiatura è coinvolgente a tutti i livelli (evidente la mano della drammaturga Yasmina Reza). Dal concept, sfruttare un episodio banale ma emotivamente coinvolgente a mo’ di arpione atto a uncinare il lato più visceralmente umano (troppo umano, verrebbe da dire) dei quattro protagonisti, ciascuno armato delle sue convinzioni, contraddizioni ed idiosincrasie, all’effettiva stesura dei dialoghi e delle situazioni sceniche. I personaggi sono psicologicamente complessi e sfaccettati, idealizzati quel tanto che basta a farne delle maschere credibili di taluni strati sociali, ma mai manierati. Il maggior pregio della sceneggiatura è una struttura narrativa che fa dei concetti di gradualità e sviluppo due punti fermi. Le psicologie dei quattro, inizialmente scialbe e incolori, acquisiscono poco alla volta forma e sostanza, sino a farsi quasi sfacciate, impudiche nel vicendevole rimarcarsi le proprie nudità. Meno di ottanta minuti di pellicola filano come un frattale con andamento spiraliforme che accompagna le esistenze dei quattro protagonisti in un vorticoso attorcigliarsi su se stesse sino al laconico epilogo sancito dalla Winslet, che suona come l’enunciazione di un teorema al termine di una lunga dimostrazione: faticosa e ineluttabile. Guardare Carnage è come concentrarsi su un frattale. Lo si osserva e, individuate certe regolarità, si crede di potersene fare un’immagine attendibile per poi imbattersi, indugiando appena un attimo in più, in formazioni tanto barocche quanto precedentemente inopinabili, celate sotto qualche ingrandimento appena. Detto questo, un film non è solo psicologia, concetto e dialogo. Un film è prima di tutto immagine e, visivamente, Carnage è insipido. Vero è che non è facile brandire degnamente la cinepresa quando, come set, si hanno a disposizione solo una manciata di stanze di un anonimo appartamento borghese di New York. Ci è voluto Tarantino per mostrare come uno dei migliori thriller degli ultimi decenni si possa girare per buona parte in un magazzino abbandonato. È vero che in Reservoir Dogs abbondano i flashback mentre Carnage è rigidamente confinato all’interno dell’appartamento, ma nella pellicola di Tarantino sono proprio le scene del magazzino quelle più incisivamente dirette e magistralmente tese. Per quanto mi riguarda, dire di un regista che non regge il confronto con Tarantino è, più che una critica, quasi un’ovvietà. Il problema è che Polansky non è un regista qualunque e da lui sarebbe lecito aspettarsi di meglio. Tutto considerato, il film non è neanche troppo vacuo, ma gli avvenimenti risultano eccessivamente imbrigliati nelle rigide logiche di ripresa tipiche delle scene di parlato (un film dallo stile, dai ritmi e dalle tempistiche alleniane; quindi magistralmente scritto e interpretato, ma registicamente mediocre). Generalmente, farsi aggiogare dalle consuetudini stilistiche di un certo genere cinematografico non è un appunto contestabile ai registi normali. Ma Polansky è molto più genio che bestia da soma e, come tale, da lui si pretende che infranga prometeicamente i vincoli della settima arte piuttosto che perdere il suo tempo a subirne il giogo. In sintesi: ben scritto e ben recitato (i quattro sono sempre all’altezza, con una speciale nota di merito per Foster e Winslet, mai dome), ma complessivamente deludente.
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