E ora dove andiamo?

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Un film di Nadine Labaki. Con Nadine Labaki, Claude Baz Moussawbaa, Layla Hakim, Yvonne Maalouf, Antoinette Noufaily.
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Titolo originale Et maintenant, on va où?. Drammatico, durata 110 min. - Francia, Libano, Egitto, Italia 2011. - Eagle Pictures uscita venerdì 20 gennaio 2012. MYMONETRO E ora dove andiamo? * * * - - valutazione media: 3,37 su -1 recensioni di critica, pubblico e dizionari.
   
   
   

Nel pragmatismo fantasioso è la salvezza Valutazione 3 stelle su cinque

di marica romolini


Feedback: 1046 | altri commenti e recensioni di marica romolini
martedì 28 febbraio 2012

Portata al successo da Caramel, Nadine Labaki torna a parlare, nella sua caratteristica cifra non grave anche nel dramma, del conflitto interreligioso e della speranza di riscatto affidata al genere femminile. Questa volta siamo fuori dalla città, in un paese montano isolato dalle mine e da un abbozzo di ponte, dove vive una comunità mista di musulmani e cattolici, sempre sul piede di guerra nonostante i buoni propositi di civile convivenza. Le informazioni che di sbieco penetrano questa sorta di hortus conclusus sembrano portare solo guai: gli echi del mondo esterno funzionano da pericolose scintille su un terreno riarso dal risentimento. Di qui i complotti delle donne, che sabotano programmi tv e incendiano giornali, non perché genericamente fautrici della filosofia del 'meglio non sapere', bensì perché consapevoli dei limiti e degli inamovibili meccanismi con cui hanno a che fare. Il film, volutamente non realistico, anche per il pastiche di generi che commistiona, si propone infatti di lanciare il valore di un 'pragmatismo fantasioso'. Su questa forma mentis sono allineati, oltre alle rappresentanti del gentil sesso, anche i due capi religiosi, che accettano di mettere in scena un falso miracolo o che promuovono l'adesione a una (truccata) riunione prospettando un buon feedback dalle provocanti ballerine dell'Est Europa che in quei giorni popolano il villaggio (altra diavoleria architettata dalle donne per placare gli animi belligeranti dei compagni) più che nebulose ricompense eterne. L'unica strada per la salvezza è, anteponendo il quaggiù al lassù, la metis, l'astuzia pratica, la capacità di superare le convenzioni e di deflagrare gli schemi. Nel microcosmo del villaggio sono infatti riprodotte in diminutio le dinamiche dell'odio che imperversa nel resto del paese, cancrenizzato dal medesimo vortice di vendette e controvendette. Tanto che il cimitero, su cui significativamente si apre il film, diventa un luogo che non solo accoglie i morti, ma li produce, slittando da effetto a causa (è il peso del ricordo che divide). Non a caso, in una delle punte drammatiche del film, una madre deciderà di nascondere il corpo del figlio ucciso da una pallottola vagante nel pozzo, sì per necessità di trama ma nondimeno per non rimpinguare una voragine che già fagocita troppe vittime. Lì semmai si devono seppellire i fucili e ammazzare così la stessa morte.
I tentativi per uscire dall'impasse sono molteplici. Tutto il film vi si regge, anche per quanto riguarda le scelte stilistiche. Si alternano i più disparati registri linguistici (commedia, dramma, musical: non si dimentichi che la regista nasce come autrice di videoclip) e un carosello di ammicchi alle varie arti (dalla tragedia greca alla danza, dal canto al dicorso in versi, che fa da cornice suggerendo la figura di un narratore-cantastorie). Pullulano citazioni metacinematografiche (Absurdistan, Chocolat, L'erba di Grace, fors'anche The hole per i sogni di evasione codificati in stacchetti canori), teatrali (la Lisistrata di Aristofane, capovolta la strumentalizzazione dell'impulso sessuale), pittoriche (Il quarto stato, La morte di Marat, le molteplici Deposizioni di Cristo di cui è piena la storia dell'arte occidentale). La dissacrazione dell'unità di genere accompagna dunque quella di un concetto rigido di appartenenza o del rispetto delle tradizioni, senza tuttavia mai scadere nell'irriverenza, se, anzi, ciò che si ricerca è proprio il senso originario delle religioni, strumento di pacifica regolamentazione sociale e non muro divisorio. Ma la risoluzione definitiva del conflitto, di quello ontologicamente fondato nell'animo umano, non può che passare per la fratellanza, attraverso la dimostrazione che anche il nemico è un proprio simile. È su questo che si gioca lo scambio finale: un'abiura che si rivela come il più tenace atto di fede. Di fede nella possibilità di un mondo migliore. Alla luce di ciò va interpretata la domanda conclusiva, che fornisce il titolo e che inscrive il film in un cerchio (di nuovo il cimitero). Per nulla retorica e nemmeno tritamente esistenzialista come veniva da sospettare, dà ragione del propizio disorientamento, dell'avvenuta rottura di quegli schemi esiziali che è necessaria premessa escatologica.

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