Detachment - Il distacco

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Un film di Tony Kaye. Con Christina Hendricks, Adrien Brody, James Caan, Lucy Liu, Bryan Cranston.
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Titolo originale Detachment. Drammatico, durata 97 min. - USA 2011. - Officine Ubu uscita venerdì 22 giugno 2012. MYMONETRO Detachment - Il distacco * * * 1/2 - valutazione media: 3,60 su -1 recensioni di critica, pubblico e dizionari.
   
   
   

Il distacco superato senza ricerche di felicità. Valutazione 4 stelle su cinque

di GreatSteven


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martedì 31 ottobre 2017

DETACHMENT – IL DISTACCO (USA/UK, 2012) diretto da TONY KAYE. Interpretato da ADRIEN BRODY, SAMI GAYLE, JAMES CAAN, CHRISTINA HENDRICKS, LUCY LIU, MARCIA GAY HARDEN, TIM BLAKE NELSON, BLYTHE DANNER, LOUIS ZORICH, BRYAN CRANSTON

Henry Barthes lavora come supplente di letteratura nei licei del New Jersey. Ha dei trascorsi famigliari davvero terribili: il padre lo abbandonò quand’era piccolo e a sette anni assistette al suicido della madre per overdose di pillole, in seguito al quale il suo nonno materno perse la ragione, continuando a credere viva la figlia. Uomo triste e disilluso, Henry ha trasformato il distacco nella sua disciplina di vita: mai attaccarsi né affezionarsi ad oggetti o persone. Tutto procede secondo il suo metodo, finché non viene incaricato, dalla preside Carol Dearden, di insegnare per un intero anno scolastico preso un istituto popolato da studenti volgari e frustrati con genitori irascibili e indifferenti, assieme ad insegnanti stanchi e delusi. Per Henry si apre un mondo fino ad allora per lui sconosciuto: fa amicizia con vari colleghi – Sarah Madison, Charles Seaboldt, Mrs. Perkins, la psicologa scolastica Doris Parker, Mr. Wyatt – e conosce i suoi studenti, che dapprima lo maltrattano come fanno con tutti gli altri professori, ma poi, passo dopo passo, gli si affezionano e si dispiacciono quando la sua supplenza termina. Contemporaneamente, Henry deve fare i conti con due ragazze pressappoco della stessa età: la prima è una sua allieva, Meredith, obesa, con la passione per la fotografia, senza amici e con il suo professore come unico e sincero confidente; la seconda è Erica, baby prostituta appena sedicenne che batte i marciapiedi e che Henry conosce una sera, rientrando a casa sul bus, dopo che un suo cliente s’era rifiutato di pagarla. Henry ospita Erica a casa propria e diventa quasi come un padre per lei, scoprendo di avere in comune con la sfortunata adolescente più cose di quante credesse. Non potrà però tenerla con sé per sempre: un giorno vengono i servizi sociali minorili a prelevarla, ma un abbraccio fra lei e il suo salvatore, dopo che Meredith si sarà suicidata ingerendo di propria iniziativa un pasticcino avvelenato, gli restituirà (o darà per la prima volta) un calore umano di cui era giunto perfino a dubitarne l’esistenza. Negli ultimi dieci anni, i film ambientati in ambito scolastico son stati molti: l’ottimo Entre les murs (Laurent Cantet, 2008), il significativo Monsieur Lazhar (Philippe Falardeau, 2012), l’anticonformista Bad Teacher (Jake Kasdan, 2011). A quale Detachment assomigli di più è una domanda cui è complicatissimo fornire una risposta, ma non gli si può negare il merito di costruire un personaggio principale commovente, straziante e altruista che affronta una metamorfosi da cima a fondo non solo come lavoratore, ma anche come essere umano. Benché l’alunna che più gli è vicina lo raffigura come un individuo privo del volto in una classe vuota, Barthes arriva a capire la natura intima delle cose e nei rapporti sociali adopera due pesi: aiuta gli altri a crescere e fa maturare sé stesso. Affiancato da un cast di ottimi e bravissimi attori, Brody tira fuori il meglio da una recitazione sotto le righe che strappa un meritato applauso per come comprende e fronteggia la natura contraddittoria e severa del suo protagonista. E, quanto al resto del cast summenzionato, troviamo: un J. Caan (il Santino Corleone de Il padrino) in formissima nel ruolo del simpatico e provocatorio, ma pur sempre onesto, professor Seaboldt che prende per i fondelli un ragazzo che gli lancia contro scurrilità e subito dopo offre ad una studentessa un mantello per coprirsi in quanto vestita in modo troppo succinto; una C. Hendricks (la Joan Holloway di Mad Men, indimenticabile capo-segretaria) che, vestendo i panni della professoressa Madison, intrallazza col nuovo arrivato, lo invita a cena a casa propria e ne capisce le motivazioni interiori che animano il suo comportamento; una B. Danner (nella vita reale, madre di Gwyneth Paltrow) che, malgrado il suo ruolo da poco più che un cammeo, si mette positivamente in mostra contestando l’appaltatore durante la riunione scolastica rinfacciandogli la sua megalomania; una L. Liu nelle vesti della dottoressa Parker, attenta psicologa che arriva ad urlare in faccia ad un’allieva impertinente il suo poco glorioso futuro con una foga al tempo stesso lacrimante e furibonda; un B. Cranston (il Walter White di Breaking Bad) al quale avrebbero dovuto dare maggior spazio, nei panni di Mr. Dearden, il marito della preside, interpretata da M. G. Harden, melliflua, affabulatrice e attaccata al suo scranno, nonostante sappia che per l’anno venturo dovrà cedere lo scettro della direzione della scuola; un T. B. Nelson che, solo quando Brody gli chiede perché si aggrappi al cancello recintato del campetto erboso da calcio, si rende noto che almeno una persona si accorge di lui e non lo ignora con aria di superba superiorità; un L. Zorich perfetto nel dare corpo e voce al nonno impazzito, affidato alle cure di un’infermiera distratta e sbadata, che scambia il nipote per la figlia e vive nel ricordo di lei rimanendo infisso ad un letto, con la mente gravemente instabile, pieno di flebo e fili di ogni genere e con l’unico conforto di avere accanto, anche nel rigor mortis, qualcuno con cui conversare; e infine la debuttante S. Gayle, al suo primo film, che interpreta la giovanissima meretrice Erica che non ha un soldo bucato in tasca ed è priva di persone al mondo che la rispettino, escluso Henry, che non la tratta mai come una prostituta, ma sa apprezzarne le qualità e la incoraggia a cambiare stile di vita per guardare al futuro con sguardo più sereno e roseo. Film d’attori, dunque, ma dotato pure di un solido impianto a livello di copione: la sceneggiatura di Carl Lund offre a ciascun personaggio carta bianca pur tenendo tutti a briglia stretta, ma dando al contempo il nulla osta per imbastire una vicenda sapientemente in bilico fra il pathos e l’autoironia, la violenza verbale e la pace calmante dei momenti di silenzio, le esplosioni di collera e gli abbracci piangenti, il desiderio di farsi sopraffare dal dolore e la voglia che gli si contrappone duramente di tirare avanti e continuare a vivere pur fra mille sofferenze e sebbene manchino quegli appigli immateriali, o meglio, quella fede mai cieca ma sempre tangibile nella speranza che il marciume da noi vissuto oggi, si tramuti in seguito in un percorso atto alla nostra completa e più profonda maturazione psicologico-intellettuale. Un finale meraviglioso con la classe vuota, irta di sedie e banchi rovesciati, cartoni strappati, fogli di libri sgualciti fatti svolazzare dal vento che penetra dalla finestra aperta, in cui Brody legge il finale di un racconto di Edgar Allan Poe che non ha la lieta fine, ma spiega tutto quanto c’è da sapere sull’inutilità della disperazione, sull’ambiguità rischiosa del distacco e sulla necessità contemporaneamente impellente e graziosa di amare chi sa contraccambiarci quando abbiamo bisogno di lui o di lei. Molto istruttivo anche il passaggio in cui Brody spiega alla classe, citando 1984 di Orwell, l’annullamento cerebrale in cui la società odierna vuol far precipitare le masse, specialmente i giovani, contrapponendo alla libertà di pensiero (valore unico e insostituibile) la falsità imposta dall’alto, le menzogne infidamente convertite in verità a furia di ripetizioni, l’invito a non acculturarsi ma ad indottrinarsi secondo le regole di un silente regime cospiratore e la macerazione totale dell’anima per creare il nulla dentro al cuore di uomini e donne, un nulla che, per l’appunto, induce al distacco più disinteressato e spassionato, ma che invece andrebbe combattuto impegnandosi ognuno nella sua battaglia personale contro i dolori che nella vita capitano senza andarli a cercare, le sfortune che sopraggiungono portando seco disgraziati avvenimenti che lasciano senza parole né forza di proseguire, gli attimi d’impazienza che sfregano con violenza e inibiscono il desiderio di coltivare ambizioni e la paura di essere noi stessi in un mondo che ci vuole dominare e plasmare a suo riservato piacimento. Un capolavoro in cui Kaye, come regista, ci mette la farina del suo sacco dirigendo la materia narrativa come un esperto camionista guiderebbe il suo tir per quattordici ore filate di viaggio e dando l’acqua della vita ad una pellicola di genere drammatico che conduce ad acque tranquille, accantonando il pericolo di suggerire la resa, ma rimpiazzandola con immane saggezza con una malinconia esistenziale che allontana da sé la commiserazione quanto la disperazione per raccogliere a quattro mani l’audacia e renderla l’arma, magari a doppio taglio, ma quanto mai efficace e urgente, con cui dare un calcio al passato ed edificare mattone su mattone il palazzo degli amici, degli affetti, dei parenti e dei potenziali da valorizzare, senza mai vergognarsi né sminuirsi. E in questo obiettivo non solo Kaye, ma anche tutto il rimanente cast artistico e tecnico, hanno centrato un bersaglio assai difficile da centrare, e di ciò va loro reso merito con tanto di cappello. Volenterosi, lodevoli, carismatici, memorabili.

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