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Amir Naderi, a Venezia il mio Giappone iraniano

Presentato Cut nella sezione Orizzonti.
di Ilaria Ravarino

Amir Naderi (77 anni) 15 agosto 1946, Abadan (Iran) - Leone. Regista del film Cut.

domenica 4 settembre 2011 - Incontri

A più di 60 anni ormai il regista iraniano Amir Naderi è una vera istituzione. Vive a New York dalla fine degli anni '80, ma la sua fama non ha nulla a che vedere con le passerelle, i tappeti rossi o le star. Autore indipendente di una ventina di film, undici dei quali realizzati in Iran prima di abbandonare il paese (senza più tornarvi), Naderi è portavoce di un cinema visionario e antinarrativo, tenuto in vita dalla lungimiranza dei festival, dall'attenzione dei musei (nel 2006 il Museo Nazionale del Cinema di Torino gli ha dedicato una completa retrospettiva e una mostra fotografica, "Bullshit Walks Money Talks"), dai saggisti e dai cinefili che alla Mostra, dove ha presentato nella sezione Orizzonti il suo Cut, lo accolgono con l'emozione e il rispetto che si deve a un Maestro: code interminabili alla proiezione del suo film, due giorni di fitti incontri, e durante le interviste il rito degli autografi e della foto con il divo involontario, che si lascia scorrere addosso sereno tutto questo improvviso rumore mediatico.

Lei che è iraniano e americano, perché ha scelto di ambientare Cut in Giappone?
Erano dieci anni che sognavo di andare in Giappone a girare un film ed è stata un’esperienza molto forte. Sono partito da un paese, l’America, con una sensibilità e una struttura multiculturale e mi sono ritrovato in un paese dominato da una sola, forte cultura tradizionale. Per certi versi mi ha ricordato l’Iran.

Come ha coinvolto Hidetoshi Nishijima, l’attore protagonista?
Ho conosciuto il mio attore a un festival a Tokio e ho aspettato altri cinque anni prima di arrivare a scrivere il film, modellando la figura del protagonista sulla sua personalità. Lui stesso è un grande cinefilo, una persona ordinata e sistematica come solo i giapponesi sanno essere. L’incontro con la loro cultura è durato anni ed è stato impegnativo: le persone tendono ad essere molto riservate, silenziose, educatissime. Sono buoni ascoltatori, ma ci mettono moltissimo a dare fiducia a un estraneo.

Come ha convinto il resto della troupe?
Ho imparato a comunicare prima a gesti e poi rispettando il loro culto del silenzio. Anche il silenzio può essere un linguaggio. Ho cercato di dirigere il film mettendoci una grandissima umanità, senza mai alzare la voce, senza impartire ordini con autorità. E li ho convinti facendogli vedere i miei film. Sul set erano tutti precisi, puntuali e ordinatissimi, anche l’autista: insomma, un mondo completamente contrario a quello in cui si è sviluppata la mia personalità.

Cut è un atto d’amore per il cinema in generale, o per lei esiste un cinema buono e uno cattivo?
Il cinema è nell’età moderna quel che era la pittura in passato, o meglio è qualcosa di più: la settima arte, si dice, proprio perché nei film confluiscono tutte le altre arti. Non biasimo il cinema moderno, ma trovo terribile che i ragazzi di oggi non sappiano niente dei capolavori di Buñuel, per esempio, o dei film di grandissimi maestri del passato che ci hanno lasciato incredibili documenti della loro arte. È come mangiare un biscotto senza avere la minima idea di come sia fatto, di cosa sia la farina. E non ce l’ho con l’entertainment, Cantando sotto la pioggia per me è un film magnifico. Ma è un’altra cosa. Quel che non tollero è il cinema che rende business l’entertainment, che leva spazio all’arte, che si approfitta dell’ingenuità della gente.

Questo è un dibattito che esiste dalla notte dei tempi...
Sì, ma ormai si è acutizzato. Basti pensare che per i film degli artisti non esistono più nemmeno schermi dove proiettarli.

I festival come questo nascono proprio come vetrina per gli artisti...
... non bastano. Ai festival arrivano 20, 30 film realizzati da artisti. E gli altri? Invisibili. Bisogna avere il coraggio di mostrarli, è attraverso queste opere che il pubblico può rendersi conto della vera differenza tra arte e... roba terribile.

Se il cinema è medicina, se l’arte cura il dolore, perché un artista come lei ha dovuto abbandonare il proprio paese per potersi esprimere?
Perché come artista devo poter dire quel che penso. E per esprimere me stesso ho dovuto scegliere questa strada, incontrare nuove culture: l’artista è internazionale, il puro cinema scaturisce dalla vita. Sono felice di avere avuto fino a oggi la possibilità di esprimermi.

Oggi in concorso c’è il film di Majane Satrapi, iraniana come lei, in esilio. Lo vedrà?
Ammetto di non vedere molti film moderni ma certamente lo recupererò. Sicuramente non vedrò il film di Madonna, non che non la rispetti ma... ho bisogno di altro. Ho bisogno di cinema.

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