The Company Men

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Un sistema a rotoli Valutazione 3 stelle su cinque

di johngarfield


Feedback: 1350 | altri commenti e recensioni di johngarfield
sabato 10 settembre 2011


La scena finale è una carrellata su una fabbrica, un tempo in piena salute, ora morente. Tutto è desolazione: non c'è anima viva. Dove sono gli operai? I dirigenti? Gli automezzi? Nulla. Anni, decenni di duro lavoro, energie, speranze, prosperità. Niente, Finito. Si cambia! Il sistema muta, liberando nuove energie e sbarazzandosi della vecchia carcassa che prima lo sorreggeva e che ora, viene lasciata morire. Ma ci sono gli uomini. Operai, quadri, dirigenti, manager, che diamine! Via! Non sono più assimilabili.
E' in questo desolante quadro che si svolge la trama del film: tre vite, legate l'una all'altra dal lavoro presso la stessa ditta, una specie di colosso che, per sopravvivere, non ha scrupoli nel liberarsi dei rami secchi: decisione drastica che spesso maschera la pigrizia nel trovare nuovi modi per riciclarsi ed evitare di sbarazzarsi di personale capace e affidabile.
E' sempre una novità interessante vedere come l'America raffigura se stessa in un ambiente poche volte esplorato: il fallimento personale simbolo di un fallimento più generale che è non solo quello di un colosso industriale, ma di un intero sistema.
John Wells, regista alla sua opera prima, è un buono sceneggiatore e produttore che si è fatto le ossa in tv in serial di grande successo come ER, sembra credere in questo su progetto, una specie di scommessa rischiosa tenendo conto dell'idiosincrasia dell'americano medio verso tematiche deprimenti e poco inclini all'entertainment.
Questo film ci sembra un mare mosso in cui si alternano e si scontrano temi ricorrenti e perfino contraddittori. C'è chi, superato il trauma del licenziamento, non si dà per vinto e ritenta il reinserimento, accettando anche lavori umili. C'è chi, dopo qualche vano tentativo di ricerca di un nuovo posto, decide di farla finita. E c'è chi, alla fine, molla tutto e, finalmente, riscopre nuove dimensioni di vita.
Non è una rappresentazione della crisi che ha investito e messo in ginocchio l'America: sarebbe troppo facile e comodo vederla così. Questo film è un atto di accusa a un sistema dove vige la legge del più forte, un sistema che fino a ieri, tronfio della propria prosperità, non si faceva scrupolo di dare lezioni di "american way of life", con la sicumera di chi è convinto che il proprio modo di vivere e concepire il mondo sia il solo universalmente valido. Salvo poi...E' il volto, peraltro troppo spesso marmoreo e inespressivo, di Ben Affleck a darci la misura di ciò che sta succedendo. Nel suo bel volto gentile da buon americano di successo, iscritto al Country Club, con Porsche nel garage e una villa da sogno, si indovina l'incredulità, l'amarissima sorpresa che il suo bel mondo di sogni, costruito giorno dopo giorno, compiaciuto del proprio successo, convinto dell'immutabilità della propria fortuna, è andato in frantumi. Egli, abituato a dare ordini, spietato quanto glielo consente il ruolo che riveste, senza riguardo per nessuno se non per le leggi di questo stramaledettissimo "mercato" (si noti la frase che suo cognato, un sorprendente e sommesso Kevin Costner, gli rivolge:"Avete investito in qualche posto di merda off shore in Asia questa settimana?"), si trova ora a subire le leggi spietate che prima aveva così tenacemente difeso e fatte proprie.
Il mito americano è andato a farsi benedire: rinunciare alla Porsche, al Club e sistemarsi in casa del cognato vuol dire scendere le strade del fallimento che, per un manager giovane come lui, può essere occasione di riflessione e di rilancio, su basi meno presuntuose e più umili. Cosa che purtroppo non avviene per l'attempato Chris Cooper che si è tinto i capelli per dimostrarsi più giovane (il sistema rifiuta il "vecchio") ed è disposto ad accettare lavori che stroncherebbero un trentenne. Per lui la sentenza è definitiva. Nessuna possibilità di reinserimento. Per lui le stupide frasi "Io vincerò perchè ho fede, coraggio ecc." sono vuote. Lui, che ha creato la società, che ne è stato uno degli artefici principali, gettato via ora come una vecchia ciabatta.
Il volto duro, segnato, sofferto di Tommy Lee Jones, licenziato da una giovinetta chiamata a fare da "tagliateste" è poi degno suggello di una rappresentazione sconsolata di un fallimento epocale.
Rappresentare le angosce di una classe medio-alta alle prese con il fallimento è operazione forse coraggiosa ed in parallelo con la raffigurazione delle difficoltà della classe operaia alle prese con le crisi e le contraddizioni del sistema, tematica portata avanti con coerenza e talento da Ken Loach. Significa alzare la mira e puntare all'establisment, a coloro che "comandano", alla classe padronale. In un clima da si salvi chi può, Wells vuole rendere chiaro che il giocattolo si può rompere e a finirne vittime possono essere gli stessi che lo hanno creato e gestito.
Per ora, il mostro, divorati alcuni pezzi del suo cervello, ne ha elaborati altri ancora più spietati, spaventato dalla repentinità della malattia che lo ha colpito, ma ancora in grado di decidere vita e morte di milioni di persone. Fino, forse, alla prossima e ancora più letale crisi. [-]

 

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