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Poetry o l'elogio del vuoto

Il regista sudcoreano Lee Chang Dong presenta in Italia il suo pluripremiato film.
di Ilaria Ravarino

Yu Junghee (Mija) in una scena del film Poetry di Lee Chang-dong.
Yu Junghee (Yoon Jeong-hee) 30 luglio 1944, Pusan (Corea del sud) - 19 Gennaio 2023, Parigi (Francia). Interpreta Mija nel film di Lee Chang-dong Poetry.

mercoledì 30 marzo 2011 - Incontri

Quando Lee Chang-Dong appare, nel giardino della Casa del Cinema di Roma, in pochi lo riconoscono. In vita sua ha girato solo 5 film, che sono bastati a imporlo come uno dei più grandi registi contemporanei, premiati alla Mostra di Venezia e a Cannes, dove nel 2009 è stato membro di giuria. È regista, ma in patria anche amatissimo scrittore e poeta, ed è stato persino Ministro, in Corea, nel 2003: è rimasto in carica solo un anno, troppo forte il richiamo della scrittura per trattenerlo nel grigio ufficio della Cultura e del Turismo. Nel verde di Villa Borghese Chang-Dong si confonde fra i turisti, qualcuno gli chiede di scattare una foto, lui scuote la testa, poi accetta e sorride. Con grazia tutta orientale si sottrae ai complimenti dei giornalisti che lo riconoscono, firma qualche autografo, e prima di cominciare a parlare del suo film, Poetry, in sala dal primo aprile, si scusa: "Mi dispiace avervi trattenuti tutto questo tempo e vi ringrazio per la pazienza di aver visto un film così lungo". Il pubblico dell’anteprima, che ha caldamente applaudito il film, risponde battendo ancora una volta le mani al maestro.

L’immagine che Poetry offre della Corea è quella di una società violenta, dominata dall’incomunicabilità. È davvero così?
No, anzi. Le violenze sessuali, per esempio, nel nostro paese non sono molto diffuse. E tuttavia fatti del genere possono accadere ovunque. Anche l’incomunicabilità fra generazioni, che è uno dei temi del film, non è tanto una caratteristica del popolo coreano quanto dell’umanità in generale. È difficile entrare nella testa dei più giovani, oggi c’è un abisso tra nonni e nipoti. Spesso, guardando mio figlio, mi sono fatto le stesse domande della protagonista del film: cosa starà pensando quel ragazzo? Chi è veramente, questa persona cui voglio tanto bene? E se nascondesse un mostro?

Perché ha scelto di girare un film sulla poesia?
Perché in questa nostra vita, in cui non facciamo altro che coprirci di parole, la poesia la stiamo lasciando morire. E allora mi è venuta voglia di raccontare l’insospettabile ruolo che la poesia può avere nelle nostre vite, e con essa la ricerca di una bellezza invisibile ai nostri occhi. Un tema difficile, lo so. Ho ricevuto molte critiche per la mia scelta di intitolare il film “Poesia”.

Perché ha scelto un finale aperto?
Lasciare le cose in sospeso mi piace. Mi piace lanciare allo spettatore una sfida, una sorta di “morality play”, un gioco di morale. Se trovi un portafogli per terra e te lo metti in tasca, la tua azione avrà una conseguenza. Se invece lo consegni a qualcuno, a un prete magari, l’azione avrà una conseguenza diversa. La nostra protagonista ha consegnato suo nipote alla polizia? Non lo ha fatto? Credo che questa domanda debba rimanere senza una risposta da parte mia: alle soluzioni io preferisco il vuoto. Forse, come accade in altri film, avrei potuto mostrare la sofferenza, il sacrificio della protagonista, per rendere più toccante la materia narrativa. E invece ho preferito rappresentare una sofferenza nascosta, che si intravede appena, di cui lascio l’interpretazione allo spettatore.

Se dovesse condensare in poche parole il senso del suo film?
Il film racconta di un’anziana che scrive poesie per la prima volta. Dapprima cerca la bellezza visibile, poi capisce che la bellezza la si può trovare solo dopo aver vissuto l’orrore, la sofferenza, il lato oscuro delle cose.

Nel suo film le donne appaiono più responsabili degli uomini. Perché?
La mia protagonista, a differenza degli uomini che la circondano, ha una ferita interiore, un forte senso di colpa che la rende più sensibile. E poi in generale le donne sono più profonde degli uomini, in Occidente come in Oriente.

Perché la scrittura delle poesie si accompagna spesso a un senso di vergogna? Lei si è mai vergognato di qualcosa che ha scritto?
Scrivo poesie da quando ero un adolescente, prima che regista mi sento un poeta. Allora, come ora, mi domandavo se quello che scrivevo sarebbe mai riuscito a cambiare qualcosa nel mondo. Ho cominciato a scrivere all’inizio degli anni ’80, quando in Corea c’era il governo militare. La vita era molto difficile e piena di sacrifici, io scrivevo poesie e romanzi ma mi sentivo inutile. Per quanto facessi, non potevo cambiare quella brutta realtà che mi circondava. Di questo, sì, di questo mi vergognavo.

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