angelo umana
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sabato 4 giugno 2011
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se nasce un bambino dio non è in collera con noi
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Il film ci illude con una presunta ricerca scientifica, su luoghi dove l’armonia tra gli abitanti e la natura fa vivere a lungo, per poi farci assistere a un banale viaggio in barca a vela dove cinque giovanotti cresciutelli si intrattengono, tutti in cerca di qualcosa o di sé stessi, quanto meno di un bilancio personale. Mette in campo un pensoso professore di antropologia, una giovane biologa raccomandata da un sottosegretario suo spasimante che si è adoperato per fare avere i fondi all’università, ed altri tre giovanotti come sopra descritti.
Tante frasi e concetti buttati lì per dare un’impronta filosofica all’opera prima di Guido Pappadà, che è stato anche collaboratore di Tornatore.
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Il film ci illude con una presunta ricerca scientifica, su luoghi dove l’armonia tra gli abitanti e la natura fa vivere a lungo, per poi farci assistere a un banale viaggio in barca a vela dove cinque giovanotti cresciutelli si intrattengono, tutti in cerca di qualcosa o di sé stessi, quanto meno di un bilancio personale. Mette in campo un pensoso professore di antropologia, una giovane biologa raccomandata da un sottosegretario suo spasimante che si è adoperato per fare avere i fondi all’università, ed altri tre giovanotti come sopra descritti.
Tante frasi e concetti buttati lì per dare un’impronta filosofica all’opera prima di Guido Pappadà, che è stato anche collaboratore di Tornatore. Pesantuccio come il maestro, da cui sicuramente ha appreso la preparazione del “pot-pourri”, mette dentro il film un po’ di tutto. Eccone una sfilza: il fascino della linea del tramonto sul mare, come confine visibile tra ciò che è stato e ciò che sarà; il mare che è libertà e prigione per il capitano della barca, “scivoli su tutto e non metti mai radici”; la barca per guadarsi dentro e riflettere; la libertà di lasciare qualcosa di prezioso; Dio che, finché nasce un bambino, significa che non è in collera con noi; i miracoli, che esistono se solo vogliamo vederli.
Alla fine il presunto fenomeno naturale non esiste, il viaggio è stato originato dalle allucinazioni di un amico un po’ “descolocado” dell’antropologo, che vive nell’isola dove il gruppo è destinato, per qualche “schizzetto” che costui si è iniettato nelle vene. La biologa, unica donna della barca e sniffatrice di cocaina a più non posso, che dice di aver seppellito la sua femminilità chissà dove un sacco di tempo fa, ci offre la sonorità di una scopata che si concede fatalmente col più tombeur de femmes della compagnia, rendendolo padre e così, come ha scritto in chat uno spettatore dell'anteprima di myMovies, “la ricerca ha dato i suoi frutti …”.
Da salvare qualche bella canzone e qualche fotografia luccicante di mare, ma è il minimo che ci si possa attendere da un viaggio in barca dall’Italia meridionale verso la Tunisia. Incredibile come un film possa essere così raffazzonato di espedienti, per farsi piacere oppure per meritarsi il contributo di Rai-Cinema. Allora tanto valeva concedere i benefici della legge Bacchelli pure a Franco Califano, il che è tutto dire.
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maxam
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giovedì 14 luglio 2011
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quando non ci credi più…
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Quando non ci credi più, “Nauta” di Guido Pappadà passa dalle due stelle su cinque, alle tre. Il regista e sceneggiatore, al suo debutto, pretende infatti molto dal suo pubblico: che lo accompagni con sufficiente attenzione in questo viaggio per mare (che dura un’ora) senza sufficiente poesia, senza sufficiente introspezione, senza sufficiente tensione, promettendo in cambio solo a coloro i quali sapranno attendere la visione di un fenomeno tra il naturale ed il soprannaturale (che ci sarà). Allora sorge un dilemma: esistono film “lenti” che ti incollano alla poltrona perché fin dall’inizio sceneggiatore e regista li hanno forniti di buoni ganci coi quali trattenere il pubblico, e che però rischiano di lasciarti alla fine confuso o deluso (penso a “Il figlio” dei fratelli Dardenne, o “La seconda volta” di Calopresti), ed esistono film “lenti” capaci di sorprenderti nel finale donandoti una scintilla di poesia, e tra questi si colloca il nostro.
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Quando non ci credi più, “Nauta” di Guido Pappadà passa dalle due stelle su cinque, alle tre. Il regista e sceneggiatore, al suo debutto, pretende infatti molto dal suo pubblico: che lo accompagni con sufficiente attenzione in questo viaggio per mare (che dura un’ora) senza sufficiente poesia, senza sufficiente introspezione, senza sufficiente tensione, promettendo in cambio solo a coloro i quali sapranno attendere la visione di un fenomeno tra il naturale ed il soprannaturale (che ci sarà). Allora sorge un dilemma: esistono film “lenti” che ti incollano alla poltrona perché fin dall’inizio sceneggiatore e regista li hanno forniti di buoni ganci coi quali trattenere il pubblico, e che però rischiano di lasciarti alla fine confuso o deluso (penso a “Il figlio” dei fratelli Dardenne, o “La seconda volta” di Calopresti), ed esistono film “lenti” capaci di sorprenderti nel finale donandoti una scintilla di poesia, e tra questi si colloca il nostro. Quale delle due categorie è migliore? A me preme spiegare la valutazione. Il film non ha sbavature, contiene un pò di (buona ma forse troppo evidente) tecnica soprattutto all’inizio quando ci viene presentato l’antropologo Bruno (David Coco) e quando il capitano dell’imbarcazione (Luca Ward), rievocando un episodio della sua vita, spiega che la libertà è poter scegliere a cosa rinunciare. Il viaggio in mare è poi soprattutto un viaggio vero: cosa si vuole dai membri di una spedizione scientifica, che diano di matto come Medea? I dialoghi non scadono mai in un noioso filosofeggiare, né risultano in alcuna scena artificiosi: il mare stesso, il limpido cielo notturno, la coabitazione forzata in pochi metri quadri rendono plausibili riflessioni, confessioni, qualche manifestazione nevrotica e una scena di sesso. Se proprio dovessimo cercare la proverbiale pagliuzza, avremmo gradito qualche secondo in più e un più accentuato singhiozzare quando la biologa Laura (Elena Di Cioccio) confida a Bruno di non potere avere figli, dato che questo costituirà la chiave di volta del finale. Due stelle su cinque, dunque, fino a quando era assente un’emozione, tre stelle su cinque quando l’emozione c’è stata. Guido Pappadà si presenta come un regista aristocratico, perché aristocratica è la vela, aristocratico è lo sguardo che ci offre attraverso Bruno dell’università italiana, ed aristocratico è ancora il dialogo tra l’antropologo docente e il custode della biblioteca ridotto a servile macchietta capace solo di insegnare e di preoccuparsi di come va bevuto il caffè. Ciò non è di per sé un difetto, capiremo meglio dai suoi prossimi lavori. Il “The End”: io avrei chiuso sulla telefonata di Laura, non appena Lorenzo (Paolo Mazzarelli) scopre di essere padre e risponde, subito schermo nero e nomi degli interpreti, ma la scelta del regista è altrettanto valida.
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ariablu
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venerdì 3 giugno 2011
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belle immagini - dialoghi da baci perugina
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Il mare è sempre suadente e pieno di fascino. In nauta questo canone è rispettato appieno: immagini meravigliose, luci straordinarie (anche in notturno), fotografia ineccepibile. E' la storia che manca: oltre il clichè dei quarantenni in crisi non si va. I dialoghi (immaginate di ascoltare il film per radio) fanno ridere, creando un disturbante contrasto con la raffinata fotografia.
A tratti sembra di vedere un videoclip: musica bellissima e immagini sconclusionate.
Belle le facce degli attori e discrete le interpretazioni, mortificati da una sceneggiatura traballante.
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