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Le quattro volte: colloquio con Frammartino

Venerdì in anteprima su MYmovies Live! i 10 minuti più intensi del film.
di Giancarlo Zappoli

L'immaginario calabrese

lunedì 24 maggio 2010 - Incontri

L'immaginario calabrese

Michelangelo Frammartino ci regala un'acuta riflessione che si addentra nella gestazione e nei significati della sua seconda creatura cinematografica, Le quattro volte. A sette anni da Il dono, apprezzato documentario anch'esso legato all'anima profonda della Calabria, che Frammartino porta radicata profondamente dentro sé, Le quattro volte offre una visione poetica sui cicli della vita e della natura, si addentra nelle tradizioni che si tramandano uguali a se stesse negli anni, in un luogo senza tempo come un paesino calabrese abbarbicato su alte colline che scrutano lo Ionio da lontano. Fresco di proiezione alla Quinzaine di Cannes, Le quattro volte esce nelle sale italiane il 28 maggio portando con sé l'Europa Cinemas Label per il miglior film europeo alla Quinzaine des Réalisateurs. La giuria composta da quattro esercenti ha scritto nella motivazione che il regista "senza essere mai didattico o sentimentale, si assume dei rischi creativi e riesce a superarli. In un momento in cui il cinema più originale è minacciato, sentiamo che sia decisamente appropriato dare il premio a questo film ed offrire al pubblico europeo l'opportunità di vedere questa visione così vitale di un remoto angolo del nostro continente". Il documentario di Frammartino fa guadagnare un premio anche a Vuk, il fedele cane del pastore morente: per lui il singolare riconoscimento giunto al decimo anniversario, Palm Dog alla migliore interpretazione canina, che Vuk ha strappato ad altri due amici a quattro zampe in gara (in Robin Hood e in Tamara Drewe).

Qual è il legame che unisce in maniera così profonda un regista milanese alla Calabria?
Sono nato a Milano ma tutta la mia famiglia è calabrese; sono il primo della mia famiglia a nascere fuori dalla Calabria, per cui ho un legame fortissimo con quella terra e sono anche molto legato all'immaginario della regione; la casa protetta a Milano era anche una sorta di piccolissima prigione, mentre invece d'estate, in Calabria, da piccolo avevo la libertà assoluta di girare, di scoprire, per cui era facilissimo per esempio sognare la Calabria d'inverno mentre ero a Milano.
Dal tuo film precedente "Il dono" sono trascorsi 7 anni. Cosa è cambiato e che cosa è rimasto immutato nel tuo modo di guardare alla Calabria?
Forse in questo film non è cambiato tantissimo perché è stato un progetto un po' complicato e difficile da finire. Nel corso di questa lavorazione lunghissima sono stato veramente tanto in Calabria, interi inverni, e adesso credo di averla capita meglio. Probabilmente se facessi qualcosa ora sarebbe un po' diverso il modo di guardare la regione. Hai parlato di un percorso lungo e difficile, a cosa è dovuto?
È dovuto al fatto che comunque il film è un po' particolare e anche io ho avuto un approccio particolare, nel senso che volevo farlo con delle risorse alternative; però è chiaro che quando vai da un produttore e gli dici "io voglio fare un film" e loro ti dicono "con chi lo vuoi fare, qui siamo a Cannes, lo vuoi fare con la Binoche? e tu gli dici "no, lo voglio fare con una capra" qualche problema si pone.
Infatti, come ti è venuta l'idea di questo film praticamente senza parole?
Sicuramente è un film che è nato dai corpi e dai luoghi, come credo alcuni film italiani di questi anni: penso a La bocca del lupo di Pietro Marcello, che mi è piaciuto tantissimo; anche se facciamo cose molto diverse credo che ci sia questa origine comune: sono i posti e le persone che incontri che ti portano in una direzione. Per me sono stati i quattro luoghi dove ho girato, che sono la figura del pastore a Caulonia, gli animali, con i quali ho voluto lavorare perché mettono in crisi l'idea di direzione, l'albero, che mi interessava perché una pianta diventa protagonista, e i cantieri del carbone che nelle terre calabresi sono incredibili: sembra di poter filmare gli inferi. Ecco, questi quattro luoghi mi avevano comunque affascinato indipendentemente l'uno dall'altro ed è stato poi una sorpresa scoprire che erano parte dello stesso film. È un pò la cosa che deve accadere allo spettatore: passando di episodio in episodio deve capire qual è la connessione; io ho fatto lo stesso percorso, mi sono ritrovato un film pronto quando invece pensavo che fossero quattro spunti per delle cose diverse.
La 'pozione' che l'anziano pastore ammalato assume ha un riscontro in riti locali più o meno antichi o è proprio una tua invenzione narrativa?
È davvero un rito radicato nel sud, in realtà più in Sicilia; nel mio paese c'è qualcosa di simile, ma poi ho scoperto essere non esattamente la stessa cosa; però in molti paesi del sud c'è l'usanza di raccogliere la polvere, la "spazzatura della chiesa" come viene chiamata, la sporcizia del pavimento e di considerarla come una sorta di medicinale con virtù terapeutiche. L'usanza voleva che si potesse usare anche come fertilizzante dei campi e che la virtù terapeutica fosse efficace anche con gli animali. Quello che a me piace è il fatto che sia una credenza pagana, il fatto della polvere del tempio: in Calabria più di 2000 anni fa è vissuto Pitagora e i pitagorici che credevano nella trasmigrazione delle anime, nel tentativo di individuarle, le coglievano lì dove c'è un raggio di sole che individua la polvere che galleggia nell'aria; i granelli di polvere per loro erano delle anime galleggianti e anche a livello visivo questo mi piace. Il nostro personaggio prima ancora di essere uomo è polvere. Questo film racconta la storia di un personaggio invisibile che passa di corpo in corpo. Una curiosità più tecnica: che tipo di macchina da presa hai utilizzato e fino a quale punto i pochi personaggi del tuo film erano comunque consapevoli della sua presenza?
Le difficoltà di questo film sono dovute anche allo sforzo di voler girare in 35 mm: volevamo che fosse un film tradizionale, oltre al fatto che per me la pellicola è quella che riesce a contenere il linguaggio proprio delle cose, della materia. Volevamo proprio che fosse un film tradizionale, che potesse accentuare la forza delle nostre scelte, che ciò che nel cinema di solito è sfondo, tutto ciò che circonda l'umano, emergesse come una sorta di rivoluzione e ingoiasse la figura umana sostituendola. Questo ha comportato una serie di difficoltà come il costo della pellicola, gli affitti, la durata delle riprese, la non grandissima agilità negli spostamenti… Invece per quanto riguarda il sentire la macchina da presa, progressivamente nel film andiamo verso figure che la macchina da presa non la conoscono e non la avvertono, per cui se prima c'è un pastore, qualcuno che puoi dirigere e con cui puoi parlare, nella seconda parte cominciamo a filmare delle bestie, che la macchina da presa non la distinguono. Infatti la scelta è basata proprio sul mettere in discussione il concetto di messa in scena, di direzione, di controllo della regia.
La modernità sembra avere risparmiato, con quelli che sono i suoi elementi negativi, il mondo che tu porti sullo schermo. In quale misura e grazie a cosa?
La Calabria è un territorio particolare, ovviamente bellissimo per cui si fa fatica a fare un'inquadratura brutta. La costa è diversa dall'entroterra, che è un luogo rimasto molto spesso arcaico, ancorato al passato e questo è meraviglioso e a volte anche doloroso. Pensiamo che ci sono paesi in cui fino agli anni '70 si parlava ancora una sorta di antico greco, quindi l'isolamento di luoghi così è davvero grande. In questa contraddizione di meraviglia e dolore accade che si sono conservati dei riti della tradizione che ci fanno sprofondare veramente nella notte dei tempi. A me quello che piace di queste tradizioni, di questi mestieri, è che trattengono in qualche modo il loro segreto: cioè se vai a vedere come viene fatto il carbone di legna, i carbonai non sanno spiegarti come lo fanno, lo sanno fare e basta. Cosa accade per esempio all'interno della carbonaia, che i carbonai costruiscono in maniera talmente meravigliosa da sembrare un'installazione di Merz, non te lo sanno dire, non sanno tramandare il mestiere, che si impara solo se da bimbo sei nato lì in mezzo alle carbonaie. Per esempio i carbonai hanno amici e parenti che lavorano con loro e che li aiutano ma che sono andati lì da grandi e non sanno fare il carbone: è un segreto che loro stessi non sanno tramandare ma che si tramanda con il vissuto.
Si sta leggendo su tutti i giornali che forse all'estero, essendoci un'educazione all'immagine maggiore che in Italia, il film andrà meglio che da noi. Che ne pensi?
L'Istituto Luce ha deciso di uscire subito, come dire sulla scia di Cannes; il film esce quindi il 28 maggio in circa 25 copie. Ti posso dire che è un film costruito fortissimamente sugli spettatori: su uno spettatore che ha voglia di mettersi di fronte a delle immagini e di fare un lavoro e quindi di essere rispettato. Sono convinto che anche in Italia ci sia un pubblico che abbia voglia di essere rispettato e non solo intrattenuto. È la prima volta che faccio un'uscita italiana, e ho molta fiducia che in Italia, dove ci sono più telespettatori che spettatori cinematografici, ci siano in realtà molte persone che hanno una gran voglia di essere rispettate come spettatori.

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