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Venezia 2010: La pecora nera

Da Ascanio Celestini un film di denuncia sulla condizione dell'internato.
di Luca Volpe

Non c'è niente di bello nella follia
Ascanio Celestini (51 anni) 1 giugno 1972, Roma (Italia) - Gemelli. Regista del film La pecora nera.

giovedì 2 settembre 2010 - Approfondimenti

Non c'è niente di bello nella follia
È stato presentato oggi in conferenza stampa La Pecora Nera, attesissimo lavoro di Ascanio Celestini sulla condizione degli ospedali psichiatrici in Italia. Il film, trasposizione cinematografica di un libro e di un'opera teatrale dello stesso artista romano, racconta la storia di Nicola, malato mentale che trascorre le sue giornate tra la spesa al supermercato – dove lavora il suo amore d'infanzia Marinella (Maya Sansa) – e la condizione di emarginato da un mondo che "È come dentro, soltanto più ordinato".
Grazie al personaggio di Nicola, Ascanio Celestini si concentra sulla follia non come "Situazione mentale degenerata" ma come "disagio", disagio che si prova quando si è chiusi per anni in un'istituzione che riduce "un adulto alla condizione di neonato", privandolo di ogni responsabilità e lasciandolo senza preoccupazioni di sorta.
A chi gli chiede quale bellezza possa essere rintracciata nella follia, Celestini risponde perentorio che non c'è alcuna bellezza nella condizione del folle. È vero – come qualcuno ha evidenziato in conferenza – che Alda Merini ha più volte parlato del manicomio come il luogo dove ha vissuto i momenti più belli della sua vita, ma questo – secondo il regista – è essenzialmente dovuto alla carenza di emozioni in un luogo fin troppo deprimente. Per rendere più chiaro il concetto Celestini cita un episodio accaduto in uno dei due ospedali psichiatrici di Venezia durante le fasi di ricerca che hanno portato alla produzione del libro: "A San Clemente ho conosciuto un'infermiera che diceva che i manicomi non erano galere ma luoghi in cui esistevano i sentimenti. Io lì ho pensato che potesse avere ragione. Non credo tuttavia che sia così. I sentimenti ci sono semplicemente perché al contrario della vita reale, che è molto complessa, nei manicomi gli internati non hanno nulla, hanno tolto loro tutto e basta poco per dare vita a un'emozione".

Una denuncia etica e non politica
Il regista romano tiene però a sottolineare che il suo non vuole essere un film di denuncia politica, bensì un lavoro di denuncia etica: "Già nel libro e nell'opera teatrale" ha affermato l'autore "ho cercato di non parlare della legge 180 ma mi sono concentrato sull'ospedale psichiatrico come istituzione". L'obiettivo era quello di provare a raccontare il meglio del manicomio, e cioè di una realtà la cui stessa creazione può (e deve) essere considerata un drammatico errore. "Ho cercato di tenermi lontano dalle vicende conosciute per focalizzarmi invece sull'alienazione che caratterizza l'istituzione manicomio. [Per cui,] se vogliamo parlare di denuncia, ho voluto parlare di una denuncia etica e non politica. Se c'è una speranza è nell'individuo e non nella società e nella politica".
Un'esposizione chiara e diretta, quella di Ascanio Celestini, come le sue idee sui manicomi e sul modo in cui fin da subito ha voluto parlarne. "Ascanio è un autore che si è preparato negli anni talmente bene che aveva già tutto in testa" ha affermato a tal proposito Tirabassi "Sul set doveva solo riuscire a comunicare quello che aveva in mente di fare". E quello che aveva in mente di fare, per sua stessa ammissione, era un cinema evocativo che volesse mostrare qualcosa, che facesse sì che lo spettatore si potesse trovare davanti a qualcosa che attraverso il visto e il sentito gli permettesse di percepire il tutto su un altro livello.

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