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L'amore al tempo della guerra

Il regista bosniaco Danis Tanovic presenta il suo Cirkus Columbia.
di Marianna Cappi

Miki Manojlovic in una scena del film Cirkus Columbia di Danis Tanovic.
Predrag 'Miki' Manojlovic (Predrag Manojlovic) (74 anni) 5 aprile 1950, Belgrado (Serbia) - Ariete. Interpreta Divko Buntic nel film di Danis Tanovic Cirkus Columbia.

mercoledì 25 maggio 2011 - Incontri

Se si pensa al cinema della ex Jugoslavia, subito dopo Kusturica, non si può non pensare a Danis Tanovic, regista di quel No Man’s Land che raccolse consensi in tutto il mondo, fino all’ottenimento del più prestigioso: l’Oscar. Dopo i meno fortunati L’Enfer e Triage, Tanovic torna con un film maggiormente nelle sue corde, con attori della sua terra e un libro Cirkus Columbia, che gli è servito a ritrovare il coraggio e la memoria per raccontare la sua guerra. Il film, che era già stato presentato in Italia ai Venice Days del settembre 2010, uscirà in alcune sale il 27 maggio grazie alla Archibald. Per ora le copie previste, purtroppo, sono solo una ventina, ma potrebbero aumentare nel corso dell’estate.

Dov’è ambientato esattamente il film? Perché tante bandiere croate in Bosnia-Erzegovina?
Il film è ambientato in una parte della Bosnia in cui la maggior parte della popolazione è croata. In altre parti ci sono serbi, bosniaci, montenegrini. Il libro stesso, da cui ho tratto spunto, era ambientato prima della guerra in un luogo a maggioranza croata, sempre in Bosnia. Per questo ci sono molte bandiere croate.

Cosa l’ha attirata nel libro?
Il mio migliore amico, regista di cinema e teatro, mi ha detto: “se leggi questo libro” ci fai un film, l’ho letto e ho pensato: “mai che io trovi per primo un libro del genere!”. Fellini stesso avrebbe potuto farci un film. Quando guardo i film di Fellini ritorno alla mia infanzia e con questo libro è stata la stessa cosa: mi ha riportato indietro negli anni. E poi c’è la follia del gatto nero: non voler vedere ciò che sta succedendo attorno a sé ma pensare solo a ritrovare un gatto. La sera prima che scoppiasse la guerra anch’io ero “da un’altra parte”: stavo montando un film con i compagni di scuola e non mi importava nient’altro.

Perché ancora la guerra?
Perché sono bosniaco. Sono arrivato ieri da Sarajevo e sembra che la guerra sia appena finita, le persone hanno ancora paura, c’è molto nazionalismo. Vivo in un mondo che è inquinato dalla presenza della guerra. Come nei film palestinesi o israeliani, si può parlare d’altro, d’amore o di qualsiasi cosa, ma la presenza della guerra si sente sempre. Anche questo film è così. Girando, mi sono accorto che lo facevo per i miei genitori, poi sono stato contento che si potesse vedere anche fuori, ma è per quelli del mio paese che parlo: alla fine si vede il cielo azzurro ma io, quando vedo un cielo terso, mi aspetto sempre una nuvola all’orizzonte. Questo volevo ricordare, alla generazione dei miei genitori: avevamo un paese bellissimo, eravamo diversi ma tutti uguali,… il nazionalismo porta solo alla guerra, non porta alcuna soluzione. A meno di non pensare alla soluzione finale.
Detto questo, credo di stare andando avanti, ho appena scritto una sceneggiatura che è ambientata ai giorni nostri, il che non esclude che in futuro possa tornare a guardare indietro. Mi piacerebbe non vedere le cose come le vedo, ma mi sento sempre più sull’orlo di una guerra che della conquista della pace. Forse perché sono padre di 5 figli, e non voglio vedere i maschi diventare carne da cannone e le mie figlie stuprate o in lacrime per i loro mariti. Magari non riuscirò a superare quello che ho vissuto ma riuscirò a conviverci. È quello a cui aspiro. In ogni caso questo non è solo un film sulla guerra, ma è soprattutto una storia d’amore e anche un film sull’amore per il mio paese e sulla sua belle époque. Forse sto invecchiando ed è per questo che faccio film “belle époque”.

La metafora centrale è quella di una divisione famigliare che rimanda a quella tra gente dello stesso popolo, giusto?
Alla fine di No Man’s Land un uomo si ritrova menomato da una mina: se qualcuno capisce che la situazione è riferita al mio paese, a come è stato ridotto, ai problemi irrisolti, molto bene, ma è tanto una metafora quanto parte della storia. Non mi piacciono le metafore fini a se stesse. A proposito dell’interpretazione dei miei film voglio raccontare una storia. Nel ’93 ero in prima linea, stavo tornando a Sarajevo quando sono cominciati i bombardamenti della città. Mi sono ricordato che avevo un amico che abitava lì vicino. L’ho trovato nella sua casa, illuminata solo con delle candele, che dipingeva Sarajevo sotto la neve. Gli ho detto: “ma che stai facendo?” Mi ha risposto: “sono un artista, cosa devo fare?” Mi sono indignato e me ne sono andato. La notte ho pensato a chi avesse ragione, se io o lui. La mattina sono uscito con la videocamera e sono andato a filmarlo. Due settimane dopo, mi sono trovato con un fotografo col quale lavoravo sui crimini di guerra e, nel suo atélier, ho notato che per scaldarsi stava bruciando le sue fotografie. Gli ho detto: “ma cosa fai?” Lui mi ha detto: “mi scaldo. Come dopo Auschwitz non c’è più poesia possibile, dopo Sarajevo non ci saranno più fotografie. Allora gli ho chiesto se potevo filmarlo e lui ha acconsentito. Mi sono ritrovato, perciò, con queste due storie all’opposto, di due civili, mentre io ero un soldato. Poi, un terzo amico, questa volta soldato come me, mi ha detto che secondo lui la guerra era il momento migliore per l’arte; un altro soldato, che suonava in una band, quando gli ho chiesto se continuasse a fare il musicista mi ha guardato come fossi pazzo e mi ha detto: “ma non vedi che imbraccio un mitra? Dormo 8 ore e torno al fronte. All’arte penserò quando sarà finita la guerra, forse.” In quel momento ho capito di avere per le mani un film, con 4 storie incrociate, in ognuna delle quali il protagonista credeva profondamente in quello che diceva. L’ho chiamato “Ritratto dell’Artista durante la guerra” ed è il mio preferito; ho rischiato la vita per questo film. Dopo le proiezioni, il pubblico mi avvicinava dicendo: si vede che lei parteggia per questa visione dell’artista, poi un altro mi diceva il contrario. Tutto questo per dire che credo che ognuno, in fondo, trovi le risposte che cerca.

Sono stati fatti molti film sulla guerra nella ex Jugoslavia, ma il pubblico forse li ha evitati, ha preferito guardare altro. Perché?
Non so. Forse sono brutti film o, come nel caso di Sarajevo di Winterbottom, troppo ermetici. Però sono convinto che in effetti la gente vada al cinema per dimenticare. I miei amici, persone serie, vanno a vedere film da ragazzini. Vivono tempi difficili, di disoccupazione, in cui i potenti fanno quello che fanno e allora vanno al cinema per non pensarci, per distrarsi. Questa può essere una ragione per cui i film di guerra non attirano così tanto.

Com’è vivere a Sarajevo oggi?
A Sarajevo si sta benissimo, ma tutto il paese è sull’orlo di un esaurimento nervoso, per usare una metafora. Non credo che la situazione sia molto buona, dopo 4 anni di guerra, 15 anni di nazionalismo e nessuna economia. Parigi non è la Francia e Sarajevo non è la Bosnia, è un’eccezione.

Lei come ha imbracciato le armi?
Quando avevo 23 anni e facevo la scuola di cinema, il 6 aprile ci fu una riunione in cui la gente disse che non voleva la guerra ma i cecchini serbi cominciarono a sparare sulla gente e il giorno dopo già bombardavano. Per cui sono andato alla polizia e ho chiesto: “cosa possa fare?” E questo è quanto. O scappi, o ti nascondi o fai qualcosa. Io non sarei scappato dal mio paese, non sono il tipo che si nasconde, per cui non ci ho pensato due volte. Non c’era un esercito bosniaco, è stato creato solo 8 mesi dopo l’inizio della guerra, prima c’era gente che si riuniva in strada e cercava di difendersi con delle bottiglie molotov. Se qualcuno ti bombarda casa, devi pur fare qualcosa.

I giovani di Sarajevo sembrano nutrire un gran risentimento verso la comunità europea, dicono che si sentono abbandonati.
Li capisco. Perché dovremmo auspicare l’adesione all’Unione Europea? È più facile che crolli prima l’intera UE che noi entriamo a farne parte. La Bosnia è sempre stata un buco nero, prima era fisicamente impossibile, oggi è economicamente impossibile. I giovani guardano ad un mondo libero che però non sembra volerli: come non capirli? Inoltre la destra ha preso piede in molti paesi, per cui sono meno attraenti. Vedremo cosa succederà.

In mezzo a tutte queste divisioni, Miki Manojlovic lavora invece con tutti: Paskaljevic, Kusturica, Tanovic…
Miki è uno dei più grandi attori della ex Jugoslavia e fa bene a lavorare con tutti. Chiunque può permettersi Miki è molto fortunato. Non intendo solo economicamente, perché Miki è anche esigente sulle storie. Con questo film ho riunito dopo 20 anni le tre più importanti personalità artistiche della Jugoslavia unita in materia di recitazione, che erano state divise dalla guerra: Miki, appunto, Mira Furlan – che interpreta la prima moglie, Lucida – e Miralem Zupcevic, l’ex sindaco.

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