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Amigo e il cinema di frontiera di John Sayles

Dopo 32 anni di attività il cineasta americano conferma stile e coraggio.
di Adriano Ercolani

Una suggestiva foto di scena del film Amigo di John Sayles.

martedì 23 agosto 2011 - Approfondimenti

Realizzare diciassette lungometraggi in America rimanendo sempre ancorato al concetto più libero e radicale di indipendenza è un traguardo che soltanto un grande cineasta come John Sayles poteva raggiungere. Sono passati 32 anni dal suo primo Il ritorno di Secaucus Seven e il cinema statunitense - sia quello realizzato ad Hollywood che l’altro lontano dai suoi opprimenti schemi industriali – si è totalmente trasformato. In passato era senza dubbio più facile mettere in piedi una produzione accettabile anche lontano dagli schemi economici del cinema mainstream, ed anche Sayles negli ultimi anni ha indubbiamente risentito di questa sempre più ingente difficoltà.
Adesso però è arrivato nelle sale il suo ultimo film, Amigo, opera che conferma ancora una volta la volontà precisa e mai tradita di realizzare un cinema schierato, indagatorio degli aspetti più oscuri e contraddittori della storia degli Stati Uniti.
Stavolta tocca a un episodio quasi del tutto dimenticato, l’occupazione delle Isole Filippine in seguito alla guerra ispano-americana del 1898. Sayles da sempre preferisce parlare di un periodo o un evento passato attraverso universi più piccoli, personaggi comuni, che però rappresentano al meglio la Storia con la S maiuscola. In questo caso protagonisti collettivi di Amigo sono un piccolo battaglione di soldati americani e il modesto villaggio che si trovano a dover occupare: invece di adottare la forza e la coercizione degli oppressori, i soldati tentano pian piano di integrarsi con i semplici contadini e di capirne usanze, costumi e modo di vita. Gli Stati Uniti però sono da sempre una potenza coloniale, e di fronte ai ribelli che combattono contro l’occupazione tutti gli appartenenti al battaglione devono ricordare di essere prima militari che esseri umani.

Cinema di impegno quello di Sayles, che però passa necessariamente attraverso l’umanità e la definizione psicologica di figure corpose e sensibili, come avviene anche in Amigo. La rappresentazione della semplicità dei contadini, del senso di comunità, dell’attaccamento alle proprie radici è senz’altro la parte più riuscita del film. Purtroppo la povertà della messa in scena, dovuta probabilmente a un budget strettissimo, traspare in maniera evidente in molte scene. Anche la mancanza di un grande direttore della fotografia come il leggendario Haskell Wexler, storico collaboratore del regista, non giova di certo all’estetica del film. Insomma, non ci troviamo di certo davanti a uno dei migliori lavori di John Sayles, ma allo stesso modo anche in questo lungometraggio si riscontrano chiaramente alcune coordinate portanti che hanno reso prezioso il suo cinema.

Molto spesso per raccontare le sue storie questo cineasta ha scelto ambientazioni ai margini, terre di confine dove l’incontro/scontro tra persone e più in generale razze è maggiormente violento ma proficuo. Pensiamo ad esempio a quello che probabilmente fino ad oggi rimane il suo capolavoro Stella solitaria, dramma sfavillante ambientato al confine tra Stati Uniti e Messico, film carico di figure che lottano per non rimanere schiacciate dal peso del passato, fatto di sangue e di scontri razziali. Ma anche l’Alaska del bellissimo Limbo è una terra selvaggia e lontana in cui gli uomini possono nascondersi e ritrovare la misura della loro esistenza. Lo stesso si potrebbe dire delle scogliere tempestose de Il segreto dell’isola di Roan, della giungla di Angeli armati, delle foreste di un film formalmente straordinario come Matewan.

Ma confine, frontiera per Sayles non sono soltanto termini geografici, quanto soprattutto umani. Molti dei personaggi dei suoi film più riusciti vivono uno stato esistenziale che li tiene ai margini: la dolorosa Mary McDonnell paralizzata di Passion Fish, lo stralunato alieno Joe Morton di Fratello da un altro pianeta, i giocatori di baseball corrotti di Otto uomini fuori. Il cinema di John Sayles sceglie dunque di rappresentare in maniera sempre sobria e fortemente veritiera situazioni e caratteri al limite. Nel corso degli anni ha raccontato l’America e il suo lato ambiguo come nessun altro ha saputo fare. Aiutato da un gruppo di solidissimi attori usciti dalla sua scuderia –su tutti non si possono non menzionare David Strathairn e Chris Cooper – questo autore continua anche oggi, nonostante tutte le difficoltà, a rappresentare al meglio il cinema liberal americano, quello che vede come suo principale compito l’indagine condotta attraverso lo sguardo lucido su presente e passato. Sotto questo punto di vista quindi anche quest’ultimo Amigo si inserisce in un percorso cinematografico che è tra i più importanti del cinema americano contemporaneo.

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