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Horror Frames: la saga di The Stepfather

Quando l'autorità paterna si fa horror.
di Rudy Salvagnini

La figura paterna
Dylan Walsh (Charles Hunter Walsh) (60 anni) 17 novembre 1963, Los Angeles (California - USA) - Scorpione. Interpreta David Harris nel film di Nelson McCormick The Stepfather.

martedì 22 giugno 2010 - News

La figura paterna
L'istituzione familiare in generale è stata spesso utilizzata dal cinema horror quale paradigma dell'autoritarismo e dell'oppressione. Oppure della devianza, come parodia malsana dell'organizzazione familiare: Non aprite quella porta, con i suoi ferrei riti familiari, o Le colline hanno gli occhi, con la rappresentazione dei frutti marci della gerarchia familiare all'ennesima potenza sono solo alcuni tra gli esempi più noti.
Al di là delle situazioni più facilmente individuabili come estreme e quindi poco percepibili come realistiche, il cinema horror si è anche dedicato specificatamente alla figura paterna - che nell'istituzione familiare tradizionale, quella più gerarchica e autoritaria, è l'emblema del potere - traendone spunto per una rappresentazione al vetriolo delle ingiustizie conseguenti a un'eccessiva idealizzazione della disciplina e dei "buoni sentimenti". Alla sua uscita nel 1986, The Stepfather - Il patrigno, diretto con precisione e abilità da Joseph Ruben su una sceneggiatura vivace e cattiva al punto giusto del rinomato giallista Donald Westlake, era stato salutato come una novità nell'impostazione e nello sviluppo narrativo. La figura del genitore vicario - il patrigno del titolo - alla ricerca di una famiglia da rendere perfetta attraverso l'applicazione pedissequa e inflessibile dei dettami della buona educazione si era subito qualificata come una delle più notevoli icone dell'horror moderno, anche grazie alla perfetta interpretazione di Terry O'Quinn, un attore versatile e sottile che oggi è noto al grande pubblico soprattutto per la sua partecipazione al serial Lost.
Il successo era stato tale da indurre alla realizzazione di alcuni seguiti - Il patrigno II di Jeff Burr e In casa con il nemico di Guy Magar - che poco o nulla avevano aggiunto a quanto già esposto nel film capostipite della serie. Ma non sono mancate le imitazioni e le variazioni sul tema. Se La porta della paura di John Murlowski ha presentato un altro serial killer maschile con l'ossessione della famiglia perfetta, Mommy di Max Allan Collins (sceneggiatore per parecchi anni del fumetto Dick Tracy del periodo post Chester Gould, il suo mirabile creatore) ha presentato un contraltare materno, ma quasi altrettanto deviato e criminale. Mikey di Dennis Dimster-Denk ha dedicato invece un'opportuna riflessione a un altro aspetto della questione, quello di un bambino psicopatico alla ricerca di genitori all'altezza.
Il concetto del film originario però è rimasto insuperato e, come sempre più spesso avviene, è stato riproposto in un remake, Il segreto di David - The Stepfatherhttps://www.mymovies.it/dizionario/recensione.asp?id=23974">The Stepfather, recentemente uscito in dvd anche da noi. Diretto da Nelson McCormick, opera diverse variazioni nel tessuto narrativo ma mantenendone intatta l'impostazione di base.

La trama
L'inizio ripropone un agghiacciante ritratto di ferocia immersa nella quotidianità più banale - che lo rende ancora più efficace - proprio come avveniva nel film di Joseph Ruben. Con il sottofondo di musiche natalizie a sottolineare il periodo dell'anno in cui si svolge la scena (e in cui tutti dovremmo essere più buoni), una persona si taglia la barba e si toglie le lenti a contatto: gesti un po' inconsueti, ma non insoliti. Poi fa colazione e via via si disvelano i misfatti che ha compiuto in casa, contrassegnati dai cadaveri - un bambino, un'adolescente, una donna - che lascia dietro di sé prima di andarsene per sempre dalla casa dove ha ricoperto per un certo periodo la funzione del pater familias. La polizia indaga sulla strage e la ricollega ad analoghe stragi compiute anni addietro da un misterioso patrigno che si inserisce abilmente in situazioni familiari compromesse - donne vedove o divorziate - e poi scompare regolarmente senza lasciare alcuna traccia di sé. Qualche mese dopo, David Harris (sempre il patrigno in una sua nuova incarnazione) incontra al supermercato Susan Harding, recentemente divorziata, e i suoi figlioletti Sean e Beth, facendo subito amicizia. Sei mesi dopo, Michael il figlio più grande di Susan torna dalla scuola militare e trova che in casa la situazione è radicalmente cambiata: David si è messo con sua mamma ed è diventato a tutti gli effetti il suo patrigno. Michael apprende subito la filosofia esplicita e semplice di David: la famiglia è la cosa più importante, senza non abbiamo niente. Naturalmente, David è sincero. Solo che crede in eccesso a ciò che dice ed è fermamente risoluto a far sì che il suo ideale di famiglia perfetta si avveri. Michael ha un recentissimo passato turbolento di giovane ribelle e teppista, ma David non vuole che torni alla scuola militare: è convinto di poter fare di lui un figlio modello. Ben presto però David comincia a essere deluso dal comportamento poco rispettoso e conforme dei suoi nuovi familiari e le cose si complicano.

Imperfezione vs. Perfezione
La variazione più importante operata da questo remake nei confronti dell'originale è l'aggiunta del figlio più grande al contesto familiare, creando così un'opposizione più consistente allo strapotere del patrigno e riducendo in parte il clima ossessivo e senza speranza che l'evidente disparità di forze dava al primo film, nel quale la giovane Jill Schoelen si trovava ad affrontare una lotta impari. L'effetto nell'economia narrativa non è troppo positivo. Più interessante è l'introduzione con una certa evidenza della figura dell'ex marito di Susan, il padre dei suoi figli. Rappresenta l'imperfezione della figura paterna in contrasto con la "perfezione" maniacale del patrigno e dimostra come un insieme di difetti contenga molta più umanità e sentimento. Il tema centrale resta quello di una satira nera dell'istituzione familiare e dei guasti della ricerca della perfezione nelle cose umane, imperfette per natura. Ma emerge con meno forza di quanto avveniva nel film di Ruben, proprio perché molto sembra essere dato per scontato come se si desse per assodata una certa familiarità dello spettatore verso la tematica.
Inoltre, Dylan Walsh offre un ritratto un po' troppo affettato e lezioso del maniaco con il pallino della famiglia. A tratti è ai confini della parodia e questo lo rende meno credibile nelle parti in cui deve essere più efferato. Il confronto con Terry O'Quinn sarebbe stato difficile per chiunque e Walsh, per evitarlo, sceglie una chiave interpretativa più esteriore, ma, pur dando un ritratto accettabile del serial killer, non riesce a conferirgli quell'aura minacciosa che O'Quinn lasciava trasparire in modo perfetto ed efficiente.
Conseguentemente, la tensione non riesce a montare in modo efficace e resta a un livello scolastico, con un alto tasso di prevedibilità. Solo l'ultimo quarto d'ora, sotto questo profilo, adottando metodi hitchcockiani nella costruzione della suspense con contrattempi banali ma credibili a inserirsi nell'azione risolutiva, riesce a pagare almeno sotto il profilo spettacolare. Non più che accettabile il cast, con una piccola nota di merito per Amber Heard che buca lo schermo nel ruolo di Kelly, la fidanzata di Michael.

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