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Sangue facile e la messinscena dell'Opera cinese

Zhang Yimou e le variazioni sulla black comedy.
di Emanuele Sacchi

In foto Ni Yan in una scena del film Sangue facile di Zhang Yimou.
Ni Yan - Pesci. Interpreta La moglie di Wang nel film di Zhang Yimou Sangue Facile.

giovedì 7 giugno 2012 - Approfondimenti

Inutile o quasi cercare in Sangue facile (fino al 24 giugno su MYMOVIESLIVE!) qualche traccia del regista di Lanterne Rosse: del Zhang Yimou autore, dai più amato e rispettato e oggi istituzionalizzato in patria, resta assai poco in un remake del primo film dei fratelli Coen, il cult Blood Simple, che fa dell'eccesso il suo cardine. Per i Coen si trattava di indugiare nel pulp - prima che il termine diventasse così inflazionato da risultare una parolaccia – con l'esuberanza stilistica dei registi talentuosi alle prime armi: dolly e angolazioni inusitate, fino una shakey cam sullo stile de La casa presa in prestito dall'amico e sodale Sam Raimi. Il regista cinese, invece, esperto ed affermato, cerca di riacciuffare quello spirito folle nella sua semplicità nella messinscena impressionistica dell'Opera cinese. Da lì attinge Yimou per la teatralità di gesti che non conoscono la misura o per colori squillanti che non ammettono ambiguità interpretative (rosa=timido e passivo Li, amante subalterno), procedendo per stereotipi dichiarati o topoi letterari immarcescibili, come quello del marito avaro e perverso, maschera che risale fino a Molière.

Accusato da sempre di mascherare nella mutazione stilistica una sostanziale carenza di contenuti propri, Zhang Yimou non è nuovo a incarnare il ruolo di camaleonte, eclettico e sempre pronto a cimentarsi con l'inaspettato. Ma quel che la critica, parlando di Sangue facile, ha dimenticato è che Yimou in passato ha già dato prova di un penchant spiccato per la commedia nera; precisamente all'epoca di Keep Cool, surreale quadretto metropolitano alla maniera di Hong Kong che pareva fare il verso a Wong Kar-wai prima di muoversi verso altri lidi. In Sangue facile ritorna parte di quell'atmosfera, fatta di figure femminili dominanti e uomini-suppellettili prigionieri dei propri istinti.

L'operazione di Yimou si traduce quindi in un remake-rielaborazione, che dei fratelli Coen – particolarmente amati dal regista di Lanterne rosse preservi lo spirito di essenziale nichilismo per calarlo in un contesto storicamente e cinematograficamente più ampio, abbracciando il cinema americano nel suo complesso in un omaggio sviscerato, che va dalla comicità slapstick e dozzinale di Abbot e Costello o dei Three Stooges all'enfasi del western post-leoniano.

Una mossa audace, azzardata, a maggior ragione considerata la forte caratterizzazione dell'originale coeniano, così intriso per dialoghi e situazioni dalla sua ambientazione nel luogo-cardine dell'istinto animale più gretto, quel Texas a cui – da Lansdale e Tobe Hooper giù giù fino all'ultimissimo Friedkin di Killer Joe – si ritorna sempre per inscenare storie di piombo e sangue. Sembrava impossibile poter trasporre qualcosa di così tipico in un contesto totalmente astratto e artificioso, come quello di una Cina alle prese con le prime polveri da sparo, ma Yimou ci riesce, collocando la vicenda in un non-luogo avulso dal tempo e dallo spazio come il noodle shop dei protagonisti.

Indubbia la maestria manierista (e un po' narcisista) profusa da Zhang Yimou nella cura per i dettagli, dall'abaco usato come combinazione della cassaforte a una rudimentale sirena di cui si avvale un'altrettanto bizzarra polizia a cavallo. Sprazzi geniali talora offuscati dal ricorso a espedienti grevi, come - per restare all'esempio specifico - l'inutile strabismo dell'ufficiale di polizia, pleonastico come gli incisivi da coniglio di uno dei protagonisti, la caratterizzazione semplice, cromatica e a tinte forti dei personaggi o (imperdonabili?) cadute di gusto come la Cavalcata delle Valchirie usata nella funambolica preparazione dei noodles (ancora una volta ricette preparate con tecniche da arti marziali, saccheggiando un tema ricorrente del cinema di Hong Kong, a partire da The Chinese Feast di Tsui Hark). Personaggi volutamente monodimensionali, come se si trattasse di una rappresentazione dell'Opera cinese, servita in una confezione esageratamente patinata ed estetizzante. Come in un divertissement pensato per stupire, divertire e non lasciare tracce indelebili, se non l'impronta di un virtuoso, a volte fin troppo consapevole della propria abilità nonché desideroso di ostentarla.

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