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Lourdes: Che cos'è un miracolo?

Misteri della fede secondo l'autrice del film vincitore morale del Festival di Venezia.
di Edoardo Becattini

Se non vedo, non credo
Sylvie Testud (53 anni) 17 gennaio 1971, Lione (Francia) - Capricorno. Interpreta Christine nel film di Jessica Hausner Lourdes.

venerdì 5 febbraio 2010 - Incontri

Se non vedo, non credo
Scettica come san Tommaso e come ogni agnostico moderno, Christine è una ragazza affetta da sclerosi multipla che si reca con una comitiva a Lourdes più per semplice curiosità turistica e bisogno di socialità che per volontà di mettere alla prova la sua fede. Ma il grande santuario dei Pirenei francesi, meta ogni anno di quasi dieci milioni di fedeli in viaggio, è un tale catalizzatore di attese e di speranze per una guarigione miracolosa, che tutta la carovana di pellegrini, volontari e semplici fedeli curiosi, si mette da subito in attesa di un miracolo che ha da accadere.
Lo scorso settembre a Venezia, il film di Jessica Hausner è riuscito nel "miracolo" di ottenere i premi più importanti assegnati sia dalla stampa cattolica che da quella degli atei e agnostici. Adesso, nel giorno dell'anniversario della prima apparizione della Vergine alla giovane contadina Bernadette Soubirous, Lourdes tenta il miracolo di apparire nelle nostre sale con un numero di copie (70) piuttosto ingente per un film d'autore e di coinvolgere nei suoi dubbi e nel suo dibattito fra serio e faceto su religione e spiritualismo anche i giovani studenti delle scuole superiori.
Vedere per credere, quindi. Ma per credere a cosa?

Che cos'è un miracolo?
Jessica Hausner: In questo film il miracolo viene presentato in modo ambivalente. C'è la fede e la speranza dei malati, ma c'è anche il dubbio su cosa sia o non sia un miracolo. Se il miracolo sia qualcosa di eterno o di passeggero, di assoluto o di relativo. Personalmente non mi interessava mostrare l'avvenimento di una guarigione, né del fisico, né dell'anima, ma il fatto che un miracolo possa essere anche un fatto estremamente personale, quasi una crescita interiore.
Ho scelto appositamente di trattare il tema dei miracoli proprio perché è un tema che non può prevedere un'unica risposta. Ci sono milioni di cause e possibili argomentazioni che hanno tentato di spiegare un miracolo, la suggestione, la forza psichica, la forza collettiva, lo spirito di comunità. Anche la medicina in proposito si è posta moltissime domande e non sempre è riuscita a dare delle risposte. Quello che più interessava rappresentare è la casualità della guarigione, l'idea che anche una persona non credente come Christine, la mia protagonista, possa essere investita di questa guarigione miracolosa e cambiare completamente la sua prospettiva sugli eventi, sulle persone e sul mondo. Non è un fatto importante il fatto che il miracolo o la guarigione sia davvero avvenuta, quel che è importante è la presa di coscienza della protagonista, la finitezza della vita, la transitorietà della vita.

Come è avvenuta la "sua" scoperta Lourdes?
J. H.: In realtà non conoscevo Lourdes prima di restare coinvolta nella realizzazione di questo film. Volevo fare un film su un miracolo, ho fatto ricerche e letto varie storie sulla questione e sono arrivata a Lourdes, una sorta di centro nevralgico dei miracoli, dove questi eventi eccezionali venivano analizzati a livello ufficiale e anche a livello medico. Ho fatto diverse ricerche sui miracoli e molto spesso, mentre mi documentavo, mi sono trovata a chiedermi cosa fosse realmente questa favola per adulti del miracolo a Lourdes. È vero che là c'è anche un ufficio medico che analizza i miracoli e che ha giudicato alcuni casi di guarigione come sostanzialmente non spiegabili da un punto di vista scientifico, ma volevo svolgere il mio sguardo più in là. Volevo interrogarmi su questa idea comune che il miracolo sia una diretta emanazione della volontà di Dio, un modo per mostrare occasionalmente e in modo prodigioso la sua bontà, mentre io penso che il miracolo sia più una cosa arbitraria, casuale.

Che tipo di esperienze ha vissuto a Lourdes?
J. H.: Prima di andarci, pensavo inoltre che l'esperienza di Lourdes potesse portarmi ad una nuova consapevolezza della fede, mentre una volta arrivata là mi è apparso molto chiaro che per me o Dio si è addormentato oppure non esiste. Sono stata anche nelle piscine e quel che più mi ha colpito è la lunga attesa che si deve fare prima di potervisi immergere. Ho aspettato per circa tre ore in fila esposta al vento e al freddo e durante questa attesa mi sono concentrata molto sul significato spirituale che potesse avere questa esperienza, quasi una forma di contemplazione. Mi sono concentrata sulla mia vita e sulle cose che sono in dubbio nella mia vita. Una volta entrata, devo dire però che doversi immergere in un'acqua che viene cambiata solo una volta al giorno e nella quale entrano anche persone che delle ferite aperte è un'esperienza scioccante, quasi ripugnante. Ho provato molto freddo e quando sono uscita, sono corsa in albergo e mi sono fatta una doccia.

Come è riuscita a girare in un luogo come Lourdes?
J. H.: Sono partita da una ricerca abbastanza lunga svolta direttamente sul luogo, non solo per comprendere se le mie effettive intenzioni di girare il film erano fondate ma anche per familiarizzare con le autorità religiose e con le comunità che organizzano i pellegrinaggi. Durante questi viaggi ho sviluppato molti contatti con il servizio stampa, hanno visto che frequentavo spesso il santuario e che le mie ricerche erano piuttosto intense, così che si è creato un solido rapporto di fiducia. Certo, poi quando ho espresso l'intenzione di girare un lungometraggio, l'idea ha creato dei problemi, soprattutto per i problemi logistici che poteva comportare una troupe cinematografica in un luogo dove si radunano quasi otto milioni di pellegrini. La soluzione è stata quindi quella di trovare dei momenti specifici per poter girare nelle grotte o nei bagni senza interrompere bruscamente il flusso dei pellegrini. Io stessa mi sono meravigliata perché sui contenuti del film non c'è stato alcun controllo o censura da parte della chiesa. Abbiamo incontrato più volte anche il vescovo del santuario, gli abbiamo sottoposto la sceneggiatura e c'è stata una collaborazione totale.

Come ha lavorato con la protagonista, Sylvie Testud?
J.H.: Durante il nostro primo incontro abbiamo parlato anche della sceneggiatura, poi durante la fase delle riprese mi sono accorta di quanto fosse adatta per il personaggio di Christine. Sylvie ha un senso dell'umorismo molto particolare ed è dotata anche di una certa autoironia e di un certo pragmatismo che hanno influenzato il mio modo di intendere una vita vissuta su di una sedia a rotelle e la sensibilità per poterla raccontare. Lavorando assieme, abbiamo cercato di fare un passo avanti e di comprendere cosa significhi essere malati: abbiamo parlato con diverse donne affette da sclerosi multipla per esplorare la dimensione più intima del dover vivere con una paralisi. Essere paralizzati significa dipendere molto da altri, subire una sorta di regressione infantile che può degenerare in aggressività.

Come ha lavorato invece con gli altri attori del film? Sono tutti professionisti oppure ci sono anche delle persone prese direttamente in loco?
J.H.: Per il casting abbiamo preso soprattutto attori, quindi il film è pressoché interamente frutto di una messa in scena. Abbiamo preso solo pochissime persone dal posto, solo nelle scene girate nei sotterranei, che sono quasi diventate delle sequenze da documentario. Quel che trovo più difficile da comprendere nella religione cattolica è proprio questo senso di intendere il futuro, questa promessa di una vita e di una felicità nell'al di là che può rendermi ancora più difficile condurre serenamente la mia vita terrena. Proprio per questo io stessa ho difficoltà ad essere credente.

Si può considerare il film come una riflessione sulla malattia?
J.H.: Sia la malattia che il miracolo sono intesi in senso metaforico. La malattia è presente sotto forma di persone affette da sclerosi multipla o paralisi, ma anche in quella più spirituale di malattia dell'anima, male di vivere la propria vita e i limiti che essa ci impone. Un malessere totalmente umano che porta la mia protagonista a desiderare fortemente il miracolo, a vivere attraverso questo forte desiderio di superare i limiti della propria umanità. Mi interessava molto di più l'aspetto filosofico della questione, non tanto l'idea del benessere fisico in sé, anche se ovviamente il fisico e lo spirito sono inevitabilmente connessi. Lavorando con persone affette dalla sclerosi multipla, ho capito che io stessa avevo questa paura primordiale riguardo la ricerca del benessere e che forse era essa stessa alla base del mio desiderio di fare questo film. Il confronto con le loro esperienze della malattia e con il decadimento fisico mi ha molto aperto gli occhi sull'idea della finitezza, del decadimento della nostra vita.

Ci vuol parlare dell'ultima scena del film e dell'utilizzo delle canzoni italiane?
J.H.: Nella scena della festa finale ho inserito note canzoni della musica leggera italiana non solo per dare un senso ironico alla sequenza, ma anche per una ragione prettamente realistica. Ci sono moltissimi italiani a Lourdes, molti di più che gli stessi francesi e quindi succede che molto spesso, per le feste di addio delle varie comitive, vengano ingaggiati cantanti italiani.

Oltre a quelli più evidenti con Dreyer e Tati, è possibile nel film trovare dei riferimenti con Buñuel o Bresson?
J. H.: Certamente, Buñuel è una fonte di ispirazione. Ho visto i suoi film quando ero adolescente e Il fascino discreto della borghesia è uno dei motivi per cui mi sono avvicinata al cinema. Il suo umorismo, il suo modo di guardare all'aspetto bigotto di alcune persone e mi sono sicuramente ispirata anche a lei. Anche Bresson è certamente una personalità molto importante per il modo in cui ho voluto intendere il film, l'idea di una rappresentazione scarna, quasi semplice, direi. Forse io ho un modo di intendere la fede molto più ironico, ma senza dubbio, da un punto di vista formale, film come Au hasard Balthazar mi hanno certamente molto influenzato.

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