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La fisica dell'acqua: Traumi liquidi

Un thriller psicologico che scorre attraverso l'immaginario infantile.
di Edoardo Becattini

Un Amleto di più
Lorenzo Vavassori . Interpreta Alessandro nel film di Felice Farina La fisica dell'acqua.

giovedì 22 aprile 2010 - Incontri

Un Amleto di più
Madre e matrigna allo stesso momento, nella nostra cultura l'acqua vive la contraddizione di essere sorgente vitale per eccellenza al cui interno si annida una pulsione mortifera. La vita umana ha inizio nell'acqua e in essa trova una sua parte fondamentale, ma la sua natura mutevole e non accogliente ne mette in luce fin dalla prima infanzia anche un lato oscuro. Il cinema ha fatto proprio nel corso del tempo questo stato perturbante e inquieto dell'acqua, questa sospensione fra purezza e paura, trasformandola di volta in volta nel luogo del sogno, dell'astrazione, dell'ignoto, dei meccanismi della memoria. Unire l'elemento acqua alla perdita dell'innocenza è il presupposto de La fisica dell'acqua, film che affronta le paure dei bambini e la complessità con cui essi guardano alle figure adulte all'interno delle pratiche del thriller psicologico. Il bambino che guarda è in questo caso Alessandro, sette anni e un'ossessione per i principi fisici e le dinamiche biologiche naturali. Da quando il padre è morto, Alessandro vive solo con la madre Giulia in una casa che si affaccia sul lago. L'arrivo improvviso dell'ambiguo zio Claudio scatenerà una serie di complessi, piccole gelosie e diaboliche macchinazioni. Nel mettere in scena questo conflitto amletico, la doppia sfida del regista Felice Farina vede da una parte la scelta di affidare a due attori di popolarità televisiva le dinamiche tensive del thriller, e dall'altra la decisione di affrontare un genere che sfugge alle consuetudini produttive italiche e che è costato al film un lungo travaglio produttivo.

La sfida del film
Felice Farina: La prima sfida era immettere la grande popolarità televisiva dei due attori principali al di fuori dei criteri di riconoscibilità, sfruttando un genere poco praticato all'interno del nostro cinema, il thriller psicologico. Claudio ha una presenza e una fisicità che si adatta ad ogni ruolo, dal buon padre di famiglia al personaggio ambiguo e oscuro come quello che ricopre in questo film. Con Paola invece ho cercato di mettere in pratica una certa "sfida al comico". Ho una predilezione per il cinema che utilizza attori di formazione comica in ruoli antitetici, come il Jack Lemmon di America Oggi o l'Alberto Sordi di Un borghese piccolo piccolo. Anche in passato ho cercato di attuare la stessa operazione con Ottavia Piccolo, attrice drammatica che aveva un ruolo divertente in Condominio e con Giorgio Tirabassi, che al contrario veniva dal comico e si è prestato a fare un assassino in Il caso Bozano. Una delle prime sfide era rendere in immagini verosimili le paure e le ossessioni di un bambino. Abbiamo effettuato diverse ricerche, addentrandoci all'interno degli studi di neuroscienze e di psichiatria basati su casi ed esperienze dirette di traumi infantili. Tuttavia, alla fine l'aspetto scientifico non è poi così importante: il film ha soprattutto un valore estensivo e simbolico per quello che riguarda la memoria e la coscienza.

Due attori comici per un film drammatico?
Claudio Amendola: Come attore non applico un metodo per interpretare una parte. Il mio unico metodo è non vestirsi del proprio personaggio. Personalmente diffido di quegli attori che entrano troppo nella parte e che poi fanno fatica ad uscirne. Quelli che si calano nella psicologia del proprio personaggio fino a portarselo fuori dal set. Per me l'unico buon metodo è seguire un regista che ti mostra come fare la scena. A parte questo, quando lavori ad un ruolo non ti vengono neanche in mente i tuoi personaggi precedenti. È un lavoro artigianale, dove metti tutto te stesso, quello che ti ha entusiasmato, quello che ti ha colpito. Così come un sarto deve essere bravo a cucire sia una giacca che un paio di pantaloni, così un attore sa lavorare separatamente su ogni suo personaggio. La cosa migliore del nostro lavoro è proprio la diversità ed io sono davvero felice di aver potuto lavorare nella mia carriera tanto con Patrice Chéreau che con Carlo Vanzina. Se non ci fosse questa diversità di impegno e di atteggiamento, sarebbe un lavoro di una noia mortale.

Paola Cortellesi: Sono d'accordo. Purtroppo ancora si pensa che un attore sia un personaggio o "il" personaggio. Chi ancora identifica un attore col il personaggio che interpreta, tende ad etichettarlo in un modo e a dargli solo un certo tipo di valenza, pecca di superficialità. È "il lavoro", se lo fai, devi saperti vestire di vari panni. Penso che l'anatema peggiore da poter lanciare a un attore sia "che tu possa fare sempre lo stesso personaggio!".

Felice Farina: Mi piace lavorare con attori che hanno questa forma alta di professionismo, che applicano una dimensione del gioco. Penso che una delle migliori qualità del film sia il fatto che poggia su di una solida base umana. Ogni attore, non solo Claudio e Paola, ma anche Stefano Dionisi e il giovane protagonista Lorenzo Vavassori hanno lavorato con molta determinazione. In particolare Lorenzo era solito correggere continuamente Claudio per il modo in cui diceva le sue battute. La cosa irritava talmente tanto Claudio che sono subito entrati in quel conflitto giusto che la sceneggiatura richiedeva.

Come costruire un thriller psicologico
Mauro Casiraghi (sceneggiatore): Il nucleo di partenza era quello di raccontare il mondo degli adulti attraverso gli occhi di un bambino, un mondo che fa paura. Da qui sono gli emersi quegli aspetti più da thriller psicologico: affrontare quegli incubi legati all'infanzia, ai quali ovviamente non potevamo dare una visione lineare o realista. Volevamo esplorare il mondo del bambino in tutti i suoi piani, quello del sogno, quello dell'immaginazione, proprio perché il mondo dei bambini è fatto di piani di realtà confusi e molto più visionari dei nostri. Per questo, non attribuirei al film una valenza soprannaturale. Fin dal principio, l'idea era lasciare agli spettatori la libertà di interpretare liberamente le immagini di questo mondo visto attraverso la mente di un bambino molto particolare.

Felice Farina: Il genere non era precostituito. Ce ne siamo accorti mano a mano: nelle pagine iniziali c'erano anche risate leggere, e poi questo materiale è stato messo assieme durante un lungo lavoro con gli sceneggiatori per trovare un territorio non esplorato. La mia natura è vulcanica e dispersiva, e durante questo lavoro a tre ho fatto emergere in modo particolare questa mia voglia di giocare coi generi e di sperimentare scelte formali e tipologie di rappresentazione che potessero dialogare in modo innovativo col pubblico.

Il lavoro degli attori
Claudio Amendola: Credo che la scena migliore venga da un certo tipo di sensazioni, dal modo in cui hai imparato un copione a memoria e dal momento in cui leggendolo lo hai fatto tuo. Dalla tua bocca esce naturalmente quel che il regista e gli sceneggiatori vogliono creare. Siamo sempre stati molto d'accordo con Felice su come i personaggi dovessero parlare e si dovessero muovere. Per questo non ho fatto una lunga preparazione sul personaggio, se non attraverso la lettura e le lunghe discussioni col regista. D'altronde, i registi si aspettano che gli attori sappiano dar forma al loro pensiero nella parte che interpretano e un buon regista sceglie sempre l'attore che sa che possa farlo.

Paola Cortellesi: Per me, le discussioni col regista sono fondamentali. Non amo la libertà degli attori, perché uno stesso copione, uno stesso dialogo, una stessa frase, possono essere interpretati in mille modi differenti e c'è bisogno di qualcuno che ti guidi e ti sappia dare una direzione.

La travagliata storia del film
Paola Cortellesi: È una storia a lieto fine anche solo per il fatto che questo film riesce ad arrivare nelle sale dopo molto tempo che l'abbiamo girato. Riuscire a finire un film con problemi legati alla produzione e mantenere una grande armonia fra tutte le persone che sono state coinvolte è di per sé una vittoria. Ma riuscire a far vedere questo film dopo il lavoro eroico di Felice è sicuramente il miglior finale possibile. Molti film in Italia affrontano grosse difficoltà produttive e arrivano sempre più spesso ad un punto morto. Mi rendo conto che si tratti di un film particolare che potrà piacere così come non piacere, ma il nostro lieto fine lo dobbiamo soprattutto allo stoico lavoro del "capitano" Felice Farina e di tanti professionisti di cinema che hanno accompagnato il film fino al grande schermo.

Claudio Amendola: Sono enormemente grato a Felice anche solo per il fatto che in un certo senso mi fa tornare al cinema senza averlo fatto, cioè per esser riuscito a portare finalmente sugli schermi un film girato diversi anni fa al quale ho tenuto in modo particolare e che vedo ancora come un passaggio importante della mia carriera, al pari dei due film che ho girato con Wilma Labate, Domenica e La mia generazione, che sono i film che amo di più della mia carriera d'attore. La sorte incontrata da questo film mi ha portato ad un lungo periodo di disamore nei confronti del cinema e mi ha fatto avvicinare più alla televisione. In questo paese il cinema viene trattato così male dalle istituzioni, nonostante tante belle parole, ed è diventato veramente difficile fare questo mestiere, quasi un lavoro da missionari. Presentare questo film ha quindi per me un significato particolare, perché mi fa in qualche modo sperare per il cinema.

Felice Farina: La realtà che ho potuto vedere nelle varie anteprime del film organizzate in giro per varie città d'Italia è quella di un pubblico che ama il cinema e che ama ancora andare al cinema per farsi ammaliare da delle storie. Forse è più un'arte di nicchia, meno popolare e diffusa anche per via del successo del catodico, ma c'è ancora un rapporto fortissimo fra l'oggetto film e il pubblico che lo ama. La verità è che, nonostante tutto, il cinema non si riesce a uccidere!

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