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Il padre dei miei figli: vivere e morire di cinema

Incontro con Mia Hansen-LØve e Chiara Caselli.
di Marianna Cappi

Un film sul duro mestiere del cinema
Louis-Do de Lencquesaing (60 anni) 25 dicembre 1963, Parigi (Francia) - Capricorno. Interpreta Grégoire nel film di Mia Hansen-Løve Il padre dei miei figli.

venerdì 4 giugno 2010 - Incontri

Un film sul duro mestiere del cinema
Esce l’11 giugno, sfidando i mondiali, l’opera seconda di Mia Hansen-LØve, Il padre dei miei figli, ma si può star certi che il film e le partite di calcio, non si ruberanno il pubblico a vicenda. Piccolo, ma solo nei mezzi e nella distribuzione, questo lavoro, premiato a Cannes l’anno scorso nella sezione Un Certain Régard, e benedetto da Bernardo Bertolucci, ha uno stile delicato e una profondità d’intenti e di esiti che non permette dubbi sul talento della sua giovane autrice. Ispirato alla figura carismatica del produttore francese Humbert Balsan, racconta il duro mestiere di vivere per il cinema e di cinema morire. Con Chiara Caselli e Louis-Do de Lencquesaing.

In Francia la storia del produttore Balsan è più nota di quanto non sia in Italia. Può essere un problema per la ricezione del suo film?
M.H-L.: è vero, in Francia era molto noto e ammirato agli addetti ai lavori e molto amato. Ha prodotto Il destino di Youssef Chahine, il primo film della regista di Ci sarà la neve a Natale?, Sandrine Veysset, un film che ha avuto un successo inaspettato, e gli esordi di molti giovanissimi cineasti sui quali altri produttori non avrebbero mai scommesso, ma era assolutamente sconosciuto al grande pubblico, per cui per me non si trattava di fare un film su un personaggio celebre ma anzi di far uscire quest’uomo dall’ombra e di mettere in luce le tracce che ha lasciato nel cinema francese.

Alla figura reale dell’uomo, lei associa la storia più intima delle donne della sua famiglia. Come ha lavorato sull’amalgama di queste due fasi?
M.H-L.: L’ho conosciuto dal punto di vista professionale, l’ho frequentato per un anno e non sarei qui se non fosse per lui, che voleva produrre il mio film d’esordio, ma non sapevo nulla della sua vita privata, della sua famiglia. Ho visto per la prima volta sua moglie al funerale, poi l’ho rincontrata quando sono tornata alla casa di produzione a riprendermi la mia sceneggiatura. Ho scritto questo film in maniera assolutamente libera, per nulla biografica, è una mia proiezione.

La figura di un produttore così coraggioso rischia di divenire estremamente attuale in tempi duri come questi, almeno in Italia…
C.C.: I tempi non sono duri, sono durissimi e voglio esprimere in questa sede la mia solidarietà al Centro Sperimentale attualmente in stato di occupazione per protesta contro i tagli alla cultura. Ho un bambino di 6 anni e l’unica magra consolazione che trovo, quando penso al suo futuro, è che la classe dirigente odierna sarà morta, per questioni anagrafiche. Però, dopo una fase di scoramento generale, sento rimontare dentro di me e attorno a me l’indignazione. Se nel Rinascimento non avessero finanziato gli artisti non avremmo Michelangelo: oggi, non pensare alla cultura, significa non pensare al futuro, non avere alcun progetto che non sia quello di tirare a campare e tenersi stretta la poltrona. Occorre reagire e farlo a voce alta.

Il film affronta diverse tematiche, dall’incomunicabilità tra marito e moglie in un matrimonio comunque felice alle bizze dei registi all’idea del ricominciare. Quale tema le è più caro?
M.H-L.: Il mio primo film era più concentrato su un unico soggetto, mentre sono stata subito cosciente che questo secondo toccava diversi temi. Ha stupito innanzitutto me stessa vedere come fare un film su un produttore cinematografico portasse oltre il cinema, aprisse molte altre strade. Volevo fare un film un po’ alla Renoir, con un personaggio che mi permettesse di raccontare un po’ l’universo-mondo. Con le dovute proporzioni, naturalmente. Il tema a cui tenevo di più è sicuramente l’associazione tra l’amore per il cinema e l’amore per la vita, perché credo di aver cominciato ad amare la vita nel momento in cui ho cominciato ad amare al cinema; il cinema mi ha dato la forza, l’energia e la fede in questo mondo. Vivo quest’identificazione a volte problematica e dolorosa, come il protagonista del film.

Silvia ama molto il suo uomo, com’è evidente dalla scena sul ponte, ma sembra non capire l’ampiezza della sua disperazione se non molto tardi. Come mai?
M.H-L.: Succede, credo, che amiamo e comprendiamo profondamente una persona ma c’è sempre una parte che resta non condivisa, qualcosa che ha a che fare con il pudore ma anche con quello spazio di libertà individuale che è invalicabile e che fa sì che Grégoir, nonostante l’amore per la moglie e per i figli, ponga fine ai suoi giorni. È un film su un personaggio che tiene tutto per sé, è fatto così. Una delle ragioni che mi hanno spinto a scrivere questa storia è che io stessa ho avuto un nonno che si è sucidato, lasciando una moglie e sei figli. È una storia che mi ossessiona da sempre. Mia nonna lo amava appassionatamente, erano molti uniti, ma anche lei non aveva capito, non si sarebbe mai aspettata quel gesto. Il suo stoicismo, la lucidità rispetto al proprio destino mi ha sempre colpito molto. Quest’intelligenza, questa mancanza di rancore o di risentimento nei confronti del marito, è una cosa che trovo molto bella e che ho rivisto nella vedova di Balsan e mi è stata poi confermata dalla sua conoscenza diretta. In Chiara ho visto proprio questo mix di vulnerabilità e di coraggio, che la rendevano perfetta per questo ruolo.

Nel film colpisce la naturalezza delle scene di vita famigliare. Come ha gestito le piccole attrici?
M.H-L.: Non ho fatto tantissime prove. Ho fatto delle letture del copione soltanto con Chiara e Louis-Do, ma non volevo che le bambine si facessero schiacciare dalla sceneggiatura imparandola a memoria. Credo molto all’atmosfera delle riprese e penso che quell’ambiente, d’estate, con la grande casa, la piccola cappella, la natura abbia favorito molto l’improvvisazione e la loro capacità di divertirsi e sentirsi a loro agio. Ho dedicato molto tempo a queste scene e ho fatto delle lunghe inquadrature, in modo da lasciarle il più possibile libere.
C.C.: Quando ho conosciuto Mia e ho visto il suo primo film ho trovato già tutte le qualità che si trovano anche in questo. Il mio personaggio doveva avere una forza naturale, non ostentata. L’ho trovato la prima volta quando, alla prova costume, mi ha messo delle scarpe basse. Silvia ha i piedi per terra e ha una camminata leggera ma posata, di chi sa la direzione. È un personaggio che va avanti sempre e comunque ma senza dover dimostrare la propria forza. Bertolucci ha capito che nella camminata di Silvia verso la stazione c’è il massimo momento di crisi: non sa dove andare, ha perso il riferimento, ma poi lo ritrova. Avrebbe potuto lasciar perdere la società, oberata di debiti, ma la prende in mano e non lo fa mai come una manager che sbraita bensì in maniera estremamente sicura e limpida. C’è un film da fare, a cui il marito teneva molto, e lei lo porta avanti. Amo le sfide, nella recitazione, e sono molto grata a Mia di avermi messo "la sbarra alta".

Perché ha deciso di girare a Ravenna?
M.H-L.: Devo ringraziare l’amico che mi ci ha portato la prima volta. Il piacere che provo davanti a quei mosaici, atemporali e freschi e allegri, mi riporta all’infanzia e per me il cinema ha molto a che vedere con la nostalgia per l’infanzia. L’altro luogo italiano che si vede nel film, che devo sempre a questo amico, è Bagno San Filippo, dove poi ho scoperto che Tarkovskij ha girato Nostalghia.

La moglie di Balsan ha visto il film e come ha reagito?
Premetto che la seconda parte è la più veritiera: la moglie americana di Balsan non c’entrava nulla col mondo del cinema ma si è trovata ad essere l’intestataria a capo della società e a dover salvare il salvabile. Un dissesto finanziario enorme, da dover affrontare insieme al lutto e a tre figli abbandonati. Ma questo essere costretta a fare, l’ha salvata, le ha permesso di elaborare il lutto.
Lei è stata la prima persona a cui ho mostrato il film, appena finito. Non posso parlare al suo posto, ma credo che le sia piaciuto.

Far recitare due attori che sono davvero padre e figlia in questi due ruoli, come è stato?
Molto complicato, per loro e quindi per tutta la troupe, perché Alice (De Lencquesaing) è una ragazzina molto sensibile e si era messa in uno stato di grande impegno e agitazione. Ho scelto prima Louis-Do, poi lei si è rivelata perfetta e così, anche se dapprima non volevo, dopo altri provini, sono tornata a lei. Per fortuna avevo solo due o tre scene in cui erano insieme. Credo che comunque questa coincidenza abbia portato qualcosa in più al film.

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