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I Gatti Persiani: Iran, la musica sta cambiando

Parola di Bahman Ghobadi.
di Marianna Cappi

Un'opera sui giovani musicisti

venerdì 9 aprile 2010 - Incontri

Un'opera sui giovani musicisti
Esce il 16 aprile in 40 copie targate Bim il primo “film rock” iraniano del kurdo Barman Ghobadi (Il Tempo dei Cavalli Ubriachi), girato in clandestinità in due settimane, con la stessa urgenza e lo stesso coraggio che anima i suoi giovani protagonisti, e costato al regista un annunciato ma non meno doloroso esilio.
Nel presentare alla stampa I Gatti Persiani , un’opera quasi documentaristica sul mondo vitale e clandestino dei giovani musicisti nel paese che ha messo al bando la musica, Ghobadi esordisce dicendo la sua gratitudine per il sostegno che dall’Italia arriva, più che da ogni altro paese, al movimento giovanile iraniano che si oppone all’establishment e il suo amore per il cinema italiano e per Bertolucci in particolare.

Il film denuncia la difficoltà di fare musica in Iran, ma è evidente che anche fare cinema è quasi altrettanto difficile.
Avevo paura, infatti, di fare questo film; inizialmente non ne avevo il coraggio. Ho sempre voluto fare un film sulla musica ma sapevo che correvo il pericolo di non poter più fare film nel mio paese. Per questo ho sempre messo soltanto degli accenni alla mia passione per la musica nei film precedenti. Sono i ragazzi che vedete in questo film che mi hanno dato il coraggio che mi mancava e mi hanno fatto capire che anche senza i permessi si possono fare degli ottimi prodotti. Sono molto felice di averlo fatto. Non mi considero il regista di questo lavoro ma un ponte, tra questi giovani artisti che fino ad ora non hanno mai potuto far sentire la loro voce e il pubblico.

Intanto Jafar Panahi è ancora in carcere…
Il suo arresto ha lo scopo di spaventare gli altri artisti. Il regime ha paura della sua voce e lo ha arrestato per questo. Panahi artista purtroppo uscirà morto dal carcere, anche se l’uomo vivrà la sua creatività sarà stata uccisa. La ragione della messa al bando della musica è la stessa. Ci dicono che è contraria alla religione ma i governanti stessi l’ascoltano e la ballano alle loro feste e così fanno i loro figli. È la paura del fatto che un artista internazionale, come Panahi, possa parlare al mondo che li muove; la religione è un alibi. Dopo la rivoluzione islamica del ’79, in Iran i bar e le discoteche sono stati chiusi e persino al parco un ragazzo e una ragazza potevano venire arrestati solo perché si sono visti fuori di casa. Come potevano fare i giovani a vivere così? O lasciavano il paese o trovavano consolazione nella droga o nell’alcool, ma c’è anche chi l’ha trovata nella musica e nell’arte, anche se costretto a nascondersi. È questo che io mostro e che non si conosce.

Un anno fa il Premio Speciale della Giuria a Cannes e il rilascio della sua compagna Roxana Saperi sembravano testimoniare un periodo di speranza. Poi le elezioni a giugno. Cos’è cambiato?
Molto. Sono cambiati i giovani e, da quando ho fatto il film, sono cambiato io. Quando chiamo in Iran mi si dice che non riconoscerò la mia terra al mio ritorno e ne sono felice. Credevo che il cambiamento fosse da imputare al fatto che stavo per fare 40 anni ma non ero io, era tutta Teheran che quando abbiamo girato, a sei mesi dalle elezioni, era in grandissimo fermento. Quello che è avvenuto poi è paragonabile alla storia di un ragazzo che è stato tenuto a forza con la testa sott’acqua, poi ha respirato per alcuni secondi e ora, anche se è stato rimesso sotto, sa che può uscire, che ha il potere di forzare la mano che lo schiaccia e di respirare ancora.

Anche con l’elezione di Khatami sembrava si potesse finalmente respirare ma così non è stato.
Vorrei che potessimo parlare dei film iraniani anche dal punto di vista artistico e non solo politico, è un rammarico per il mio Paese, non per me: un paese che non può esprimersi senza venir interpretato politicamente. Comunque sia, risponderò: Khatami ci ha dato prima una speranza e poi una grande delusione. Forse lui voleva davvero il cambiamento ma il sistema non lo permetteva. Ci hanno preso in giro.

Durante le riprese del film è stato arrestato ben due volte..
Non siamo stati incarcerati, solo fermati. Ho regalato qualche mio film, qualche dvd, e così ci hanno rilasciato. Invece sono stato arrestato di ritorno da Cannes. Avevo paura, per questo non ho preso l’aereo e sono entrato dal Kurdistan, ma mi hanno preso lo stesso e sono stato in prigione per sette giorni, tra il 2 e il 9 giugno scorso.

“Teheran è la città dove tutto ti provoca” dice un pezzo nel film. Cosa significa?
Provoca in senso buono. Pur con tutti i suoi problemi, io la adoro, per la grandissima energia che sprigiona dai suoi giovani o da personaggi come Nader, l’impresario del mio film.

Il film non verrà distribuito ma il regime lo vedrà. I protagonisti rischiano di avere dei problemi?
Due o tre band hanno lasciato il paese, come altre prima di loro. Ci sono più di 3000 rock band in Iran e se 10 o 20 di queste lasciano il paese è solo un bene. Anch’io non posso rientrare ma la mia presenza ora è molto più utile qui in Occidente, perché qui posso raccontare quel che avviene là.
Il film è stato visto illegalmente (ma gratuitamente) da moltissimi giovani che sono rimasti scioccati dal mondo musicale che mostro e di cui non conoscevano l’esistenza. Alle proiezioni gli iraniani mi abbracciano e mi ringraziano, per loro è un film incoraggiante.

Per la prima volta vediamo in questa pellicola il volto moderno di Teheran e non solo i luoghi più poveri e disagiati del paese. Perché?
Non potendo parlare direttamente dei problemi della società, il cinema iraniano ha sempre parlato di vecchi e bambini, dei grandi temi come la vita e la morte, ma mostrando quelle condizioni di povertà e disagio di cui non poteva dire apertamente. Io ho parlato del Kurdistan, dove veniamo considerati cittadini di terzo grado, il disagio è reale e essere kurdi e sunniti una doppia colpa. Poiché però si dice che il cinema iraniano si stia ripetendo, non racconti più nulla, ho voluto fare un film che faccia vedere quel che non si era ancora visto: la Teheran dei giovani artisti, le loro difficoltà, le loro preoccupazioni. All’estero i giovani vengono aiutati, sovvenzionati, ci sono addirittura degli stadi dedicati alla musica. Da noi i musicisti si devono nascondere e non hanno gli strumenti per suonare. Ci tengo a dire che nulla in questo film è stato inventato: i luoghi sono reali, i gruppi musicali, le cose che accadono loro sono tutte storie vere di queste persone.

Ha detto che non può rientrare nel suo paese. Dove vive ora?
Ero depresso perché avevo lavorato per tre anni ad un film sulla pena di morte (60 secondi di me e di te) che non ha poi avuto il permesso di andare in sala e non volevo partire senza lasciare nulla di fatto. Allora ho girato questo film in 18 giorni, insieme con altri ragazzi che stavano per partire. Sapevo che se lo avessi fatto non avrei mai potuto girare un altro film in Iran oggi e per questo ho cercato di farvi conoscere più musicisti possibile. Ora mi rendo conto che ho mostrato troppo poco ma ho lavorato molto in fretta. Non importa se non potrò più fare cinema, voglio militare per cambiare le cose nel mio paese. Ora mi muovo tra l’Iraq, Berlino e l’America. Non ho una casa ma sto soprattutto in Iraq, dove sto cercando di organizzare in festival e sto producendo due lungometraggi di giovani registi. Sono più libero e meno frustrato. Aspetto. So che tra 2 o 3 anni potrò tornare. L’Iran è il paese di chi come me è dovuto andare via, non è di chi lo governa. Dobbiamo tornarci.

Chi sono i Gatti Siamesi?
Sono i giovani iraniani. Sono sensibili e pregiati ma il regime non è gentile con loro. Hanno scagliato una pietra contro il parabrezza della macchina dell’establishment e l’hanno crepato. Quella crepa ora si sta allargando: o il regime cambia il parabrezza o andrà in pezzi. I Gatti iraniani sono belli e costosi ma non possono essere portati in giro per strada, proprio come i giovani, che devono vivere reclusi e non vengono apprezzati ma nascosti. Io non ho mostrato che una briciola. Il 90% dell’arte del nostro paese –cinema, musica, poesia, letteratura- è sotterranea, tenuta nascosta in arresa un giorno di uscire, di poter sbucare in superficie.
Ma ho una richiesta da fare: non parlate solo della faccia brutta dell’Iran, come la bomba atomica. È come una bella ragazza che è stata coperta con un chador e dei grandi occhiali scuri e di cui è impossibile apprezzare la bellezza in questo modo. Quando noi iraniani vediamo l’immagine che viene presentata a voi del nostro paese stentiamo a riconoscerlo.

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