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Butterfly Zone: In vino veritas

Uscita estiva per il film vincitore del FantaFestival 2009.
di Edoardo Becattini

Spirito (di)vino
Francesco Salvi (71 anni) 7 febbraio 1953, Luino (Italia) - Acquario. Interpreta Il padre di Vladimiro nel film di Luciano Capponi Butterfly Zone - Il senso della farfalla.

venerdì 25 giugno 2010 - Incontri

Spirito (di)vino
S ideways, Mondovino, Un'ottima annata: dal dramma dolceamaro alla commedia sentimentale, passando per il documentario eno-socio-politico, il vino si sposa con molti generi cinematografici, rendendoli più sapidi e attraenti. Con Butterfly Zone assistiamo però alla prima volta in cui il nettare di Bacco insaporisce i temi della fantascienza e del fantastico soprannaturale con umorismo, voluttà ed ebbra euforia. Come se ne avesse sperimentato gli effetti in fase di scrittura, il regista Luciano Capponi concepisce un vino, il Caresse de Roi, che permette ai suoi protagonisti di raggiungere l'al di là e a lui di varcare i confini di ogni possibile genere narrativo.

Come nasce la storia di questo film?
Luciano Capponi: Ritengo che ogni autore scriva sempre di una sola cosa, che poi colora con toni diversi e in vari modi. Quel che mi ha portato a scrivere questa storia è semplicemente il mio modo di vedere le cose e il mondo: amo giocare e perciò non posso che realizzare storie che hanno a che vedere con questo mio desiderio di gioco. D'altronde, il nostro vissuto è un'interfaccia continua con quello che facciamo, che viviamo, che leggiamo. In questo film c'è un po' tutto me stesso e anche di più: c'è l'idea di un uomo che un giorno bevendo vino si è detto: Caspita! Perché no una storia su un vino?

Da dove arriva la voglia di mescolare tanti generi?
L. Capponi: La vita è divisa fra tragedia, dramma, farsa, commedia e teatro dell'assurdo. In questo panorama ognuno pare costretto a scegliere un solo modo per vivere la propria vita. Mi sono accorto che i bambini di oggi, gli orfani industriali come li definisco, non hanno più negli occhi quell'innocenza che ancora hanno invece i bambini stranieri meno fortunati. Guardo i bambini come guardo gli uccelli, per capire sia il presente che il nostro futuro. Non sono affatto un romantico, ho i piedi piantati per terra, e proprio per questo credo che sia sbagliato quella concezione dell'eroe che ha l'immaginario collettivo come qualcosa di intoccabile. Sono le separazioni, le differenze e la comunicazione fra queste differenze a dare alla vita un valore aggiunto. Infatti, quando sono nato, la prima parola che ho sentito è stata originale, lasciando da parte il termine precedente che era peccato. Viviamo con un retaggio fatto di sensi di colpa e di cliché comportamentali: buoni e cattivi, bastone e carota. Personalmente sono sempre stato esaltato dall'idea di sentirmi diverso dagli altri, spinto da un'energia che chiamo animus e da un grande desiderio di libertà.

Il lavoro sul cast?
L. Capponi: Inizialmente ho cercato di coinvolgere Paolo Villaggio, che però ha fatto marcia indietro per dei dubbi legati alla distribuzione. Quando poi ho parlato a Francesco Salvi dell'idea di un vino che fa andare nell'al di là, ha accettato subito senza neanche leggere la parte. Con Barbara Bouchet, dopo qualche simpatico scambio di telefonate, mi sono sentito minacciato di morte se non le avessi dato la parte! Dai provini successivi, ho poi trovato Pietro e Francesco, che ho scelto per la loro capacità di improvvisare e di giocare con me, anche se inizialmente avevo pensato ad una strana coppia più simile a Don Chisciotte e Sancho Panza. Patrizio Oliva ho sempre pensato che potesse essere un grande attore ed è bastato metterlo a suo agio, facendolo sentire sul set come fosse a colazione, per farlo rendere al meglio. Con Damir è stato amore a prima vista, ci siamo compresi subito ed abbiamo costruito la parte in maniera quasi endemica. Infine Sergio Nicolai mi ha conquistato con una battuta (Chi l'ha scritto questo copione, Zavattini?) e ho voluto ricompensarlo con un ruolo scritto appositamente per lui.

Cosa dicono gli attori?
Pietro Ragusa: L'incontro con Luciano è in effetti cominciato con un provino, nel quale anziché recitare le scene preparate, mi ha fatto improvvisare assieme a lui. E così è stato anche sul set: abbiamo sempre lavorato assieme. Luciano non è un regista che guarda da lontano e dice quel che non va, ma uno che si muove assieme a te. Il suo approccio da anche una libertà impegnativa, una possibilità di improvvisazione che per un attore questo è un cibo meraviglioso. D'altronde la libertà di interpretazione è pura espressione.
Barbara Bouchet: La prima volta che sono andata a casa sua, sono rimasta molto colpita da questo uomo che ha scritto libri, musica, ha fatto teatro e ha recitato. Luciano ha un senso dell'umorismo meraviglioso e c'è stata simpatia immediata. Il mio ruolo è fuori dai miei schemi consueti: una donna brutta e cattiva, una sorta di Salvador Dalì femminile.
Francesco Martino: Mi ero presentato al provino per lo stesso ruolo di Pietro perché il personaggio di Vladimiro era più vicino alle figure di ragazzi tranquilli che di solito mi fanno interpretare. Quando poi Luciano mi ha fatto provare il più sanguigno Amilcare ero felicissimo di poter lavorare su un personaggio nuovo. Per questo sul set poi è stato un po' come andare sulle montagne russe, con Luciano che mi chiedeva di smettere di pensare e solo di lasciarmi andare, di giocare e divertirmi. È stato bello ascoltarlo e andargli dietro, anche se penso di esserci riuscito in un paio di inquadrature...

Quanto è stata utile la tua esperienza coi vari media?
L. Capponi: Ognuno dei linguaggi dello spettacolo ha una sua specificità: in teatro i dettagli sono determinati dall'azione dell'attore, che spesso ci dimentichiamo quando guardiamo una regia televisiva. Nel cinema è differente, il dettaglio è onnipresente, così come la musica: al cinema ogni espressione è estremamente pervasiva. Nella mia vita, ho avuto modo di fare molte esperienze e ho deciso che preferisco essere uno che sente, piuttosto che uno che prova. Sono un po' un cane sciolto nel mio modo di fare regia ed è per questo che alla fine il mio film appare un po' come una favola anomala e un po' folle. Improvvisare non significa infatti per me uscire fuori copione, significa sapere che un attore ha grande coraggio e grande mestiere. Significa creare la giusta sintonia fra regia e interpreti tale che l'improvvisazione diventa la realizzazione di un volere unico fra attore, regista e operatori di scena. Dalla versione presentata al FantaFestival ho tagliato alcuni elementi surreali perché ho pensato fosse più giusto affrontare la mia opera prima tenendo tutto sommato i piedi per terra e lavorando un po' di pragmatismo.

Come mai tutti questi riferimenti calcistici?
L. Capponi: La bibbia del XXI secolo è la televisione, ciò che la televisione dice diventa reale. In questo stato il calcio ha una pressione straordinaria. Quando sono nato ero circondato da gente di una fede romanista, e questa fede me la sono portata appresso tutta la vita anche se con il dovuto distacco. Il calcio è anche parte integrante di un progetto di educazione alla differenza e alla sensibilizzazione culturale che si chiama No Fair, No Play. È una squadra di calcio il cui mister è Nevio Scala e dove giochiamo io e sportivi come Patrizio Oliva o Gianfranco Zola. È un progetto per i ragazzi italiani, per quei figli industrializzati cui accennavo prima.

Come pensi reagirà il pubblico?
L. Capponi: Non penso si tratti di un film difficile per il fatto che ho osato cavalcare vari generi e messo in scena situazioni che possono creare sconcerto o interrogativi. Se la comunità europea ci impone di fare zucchine di una certa lunghezza, io ho preferito invece piantare un seme italiano e farlo crescere a suo modo. È il sistema mediatico e soprattutto la casta televisiva a imporre questi centimetri, a decretare cosa piace al pubblico. Ad esempio, alle proiezioni organizzate finora, il pubblico ha sempre reagito benissimo e alla fine, come dice Totò, è il pubblico che decreta cosa è valido e cosa no.

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