Sex and the City

Una brillante commedia gay

Qualche anno fa, circolava una battuta fra le amiche newyorkesi più scapigliate e affluenti. Diceva: se il ragazzo con cui ti vedi confessa di guardare in televisione gli episodi di "Sex and the City", attenzione, pericolo: è un bisessuale. Se poi ammette che gli piacciono molto, allora sei nei guai: di sicuro lui è gay. Era solo una battuta, d'accordo, ma qualcosa indicava. Quale era la novità del celebre telefilm? Si trattava certo di un buon prodotto. Ben confezionato, ben scritto, ben recitato. Tutto qui? No. Di prodotti ben fatti la televisione (non quella italiana, ahinoi), in questi anni ne ha sfornati più d'uno. La novità era nel fatto che un gruppo di ragazze trentenni, variamente belle, variamente realizzate, chiacchierava incessantemente di sesso. Sì, la scusa era quella della ricerca più o meno disperata di incontrare Mr. Right, l'Uomo Giusto, bello, figo e intelligente (e magari con un discreto conto in banca, che non guasta mai). Le ragazze erano perlopiù single molto consapevoli, scarsi legami familistici (grazie al cielo), con discrete possibilità economiche, sullo sfondo dì una New York a metà strada fra l'incubo dell'Aids e la simpatica sventatezza pre-11 settembre. Un sacco di avventure amorose, legami che sembravano chissà che e invece si arenavano subito sui consueti egoismi maschili, molte molte discussioni & incomprensioni, ma alla fine uno straordinario spirito di gruppo amicale e giustamente affettuoso. Sembrava un inno (benché tardivo e con una spruzzata glam) alla famosa sorellanza dei lontani Settanta. Sembrava. In realtà - pensateci - quelle ragazze sì comportavano e parlavano e agivano come un manipolo di tipici gay metropolitani, tipicamente spiritosi e parecchio sboccati. Come dei giovani omosessuali, la loro scena era fatta di appartamenti curati e bar rumorosi, lavori ben remunerati e tanto tempo libero da dedicare alla disamina delle prodezze amorose della notte prima. Niente mocciosi in giro, per carità, pannolini e asili nido, o fantasie campagnole, o peggio ancora malinconici talami nuziali in cui leggere due righe di un libro e poi bacini della buona notte, casti e frustranti. No no. Piuttosto, approfondite analisi su misure virili e performances un po' inconsuete.
Sto dicendo che in definitiva chi scriveva, episodio dopo episodio, la storia delle ragazze dì "Sex and the City" stava pensando ai casi suoi (se gay) oppure a quelli dei propri amici omosex. Trasponeva cioè sul corpo femminile quelle che erano (e sono) le figure e ì codici del più classico immaginario omosessuale. Del resto, ricordatevi della solita Albertine di Marcel Proust: nella realtà, non era forse un baffuto e seducentissimo autista?
Da L’Espresso, 24 aprile 2008

di Mario Fortunato, 24 aprile 2008