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Il canto di Paloma e l'eredità di un trauma

Patrocinato da Amnesty International esce domani il film Orso d'Oro alla Berlinale di quest'anno.
di Edoardo Becattini

Il latte del dolore
Claudia Llosa - Scorpione. Regista del film Il canto di Paloma.

giovedì 7 maggio 2009 - Incontri

Il latte del dolore
Spesso la poesia può nascere anche da una violenza, come modo per affrontarla, per esorcizzarla, o semplicemente per raccontarla. L'idea di una "teta asustada", di un "latte del dolore", è una forma di credenza popolare legata al trauma di quella violenza che per più di vent'anni migliaia di donne peruviane hanno subito e che si è trasmesso come crudele eredità alle loro figlie. Un'immagine precisa, violenta e tragica quanto estremamente poetica, che pare scaturita della tradizione letteraria del realismo magico sudamericano e che è invece parte di un immaginario ben situato. Quello condiviso dalla popolazione femminile che abita l'altipiano andino e sulla quale la giovane regista Claudia Llosa ha costruito il suo secondo lungometraggio ed è arrivata a vincere l'Orso d'Oro all'ultimo Festival di Berlino. Il canto di Paloma è proprio da un canto senza immagini di accompagnamento che parte: l'ultimo canto con cui una madre racconta alla propria figlia prima di morire tutte le violenze subite durante gli anni del terrorismo e di averla allattata con il "latte del dolore". Il trauma trasmesso in eredità alla figlia Fausta viene sciolto da una morte e da un canto sussurrato e improvvisato fra sé e sé che percorrerà tutto il film e tutte le tappe in cui Fausta cercherà di dare degna sepoltura alla madre e di affrontare i demoni della propria paura per la sessualità.

Che cos'è la "teta asustada" che da il titolo al tuo film?
Claudia Llosa: La "teta asustada" (tradotta al meglio con "il latte del dolore") è un tema estremamente complesso, che può esser visto da numerosi punti di vista. È una forma di sindrome atavica che comporta la paura della sessualità ed una difficoltà innata a rapportarsi con gli uomini da parte di tutte quelle donne figlie di una violenza e di un abuso sessuale. Si tratta principalmente di una credenza sviluppata nell'ultimo ventennio, con gli innumerevoli stupri perpetrati da parte dei gruppi armati ribelli soprattutto nella zona andina, e che riguarda quindi molte delle ventenni come la mia protagonista, Fausta. Ovvio che si tratta di un principio che agisce principalmente a livello inconscio, e che per questo interessa più gli studi antropologici o psicanalitici che la medicina generale, ma è altrettanto ovvio che il dolore di cui parla è reale. Dal mio punto di vista sono partita dal fatto che è una sindrome che parte da un dato storico e che quindi riguarda molto da vicino la realtà delle giovani andine di oggi. Si parla quindi di una sessualità vissuta in modo molto conflittuale, ma è proprio questa durezza, questa complessità a dare enfasi anche all'altro tipo di sessualità, quella del coito felice, della sessualità che scaturisce dall'incontro e non dalla violenza, dall'abbraccio e dal reciproco rispetto reciproco.

Come si è svolta una ricerca su un tema di questo tipo?
Trattandosi di un argomento su cui non ci sono studi scientifici, ma solo racconti tragici che si confondono con l'immaginario popolare, è stato davvero difficile documentarsi, anche perché io ho conosciuto i conflitti del terrorismo peruviano durante la mia adolescenza e sempre vivendo il problema dall'esterno. Tuttavia proprio questa dimensione immaginaria, che coinvolge esperienze personali e folklore collettivo, ci ha permesso di interessarci al fenomeno partendo da alcune espressioni semi-inconsce di tante giovani andine come la cantilena o la litania come modi per far emergere i propri demoni ereditati da un trauma del passato. Questa idea del canto ci ha poi permesso di lavorare, durante la costruzione del film, su alcuni simbolismi ed astrazioni poetiche, come l'idea della patata e del fiore.

La rappresentazione del popolo andino è realistica o frutto di fantasia?
La messa in scena dei preparativi del matrimonio e le superstizioni relative alla sepoltura che coinvolgono la famiglia di Fausta giocano sia di elementi presi dalla realtà che di astrazioni artistiche. come l'uso del colore usato in modo altamente espressivo. È vero che i matrimoni sono cerimonie vissute con particolare trasporto dal popolo andino, per cui molte famiglie sono capaci di indebitarsi a vita per rispettare al meglio questa tradizione. Da questo elemento abbiamo poi lavorato su una messa in scena che enfatizzasse un uso del colore particolarmente espressivo, che contribuisse anche ad enfatizzare questa dimensione immaginaria del racconto.

C'è uno studio attento sul linguaggio?
La lotta fra moderno e ancestrale è uno degli aspetti fondamentali del film, ed è chiaro che questa lotta passa primariamente attraverso il linguaggio parlato. Il mondo che ho voluto ritrarre è un mondo moderno, contemporaneo, nel quale si inserisce però come elemento primigenio, più legato alle tradizioni popolari, la lingua quechua parlata dagli andini. È proprio nel canto e nella lingua quechua che si crea questa lotta interna al mio film, quella fra il mondo della realtà e il mondo dell'immaginario. La sequenza del mare che chiude l'ultima parte del film, con Fausta che accompagna la salma della madre sulla zona costiera, ha proprio questa intenzionalità: raccontare l'incontro fra due differenti forme di cultura e di linguaggio, la necessità di stabilire una comunicazione fra gli abitanti degli altipiani e la popolazione che vive più vicino alla costa e alla capitale. Come hai lavorato sui canti popolari?
Ho scritto i testi dei canti del film, mentre della musica si è occupata direttamente Magaly Solier, la protagonista. Non volevamo creare dei veri e propri canti ancestrali, piuttosto lavorare senza una precisa partitura che enfatizzasse l'idea che fossero cantilene improvvisate, frutto del subconscio e della maturazione della protagonista. Lavorare con Magaly è stato fondamentale. È il secondo progetto nel quale lavoro con lei (dopo l'esordio Madeinusa). La sua bellezza non è una bellezza solamente fisica. I suoi silenzi sono capaci di comunicare soprattutto attraverso gli sguardi e la pelle. Ha un carattere molto diverso dalle introversioni di Fausta, ha una personalità molto attiva. L'idea di farle interpretare questo ruolo nasce proprio dalla possibilità di accostare la sua dolce bellezza alla durezza e alla complessità di un personaggio come Fausta.

Nel tuo film cerchi di vedere il Perù come un universo femminile?
Il punto di vista privilegiato su una personalità e su un problema femminile non deve lasciar pensare che il mio sia un film che intende parlare solo alle donne e considerare l'uomo come un utente secondario. Anzi, ho tentato di dare corpo e anima anche alle figure maschili proprio perché era importante per me far vedere come ci sia necessità di un punto di vista maschile che si interroghi sul problema della violenza sulle donne. In fondo donne e uomini sono complementari, e lavorare sull'interazione dei due generi significa già fare interagire positivamente due forme di cultura.

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