Persepolis

Marjani Satrape. Se la mia vita a fumetti vince l’oscar, per me sarà come avere una paio di scarpe nuove.

Arriva in Italia «Persepolis», il film tratto dal celebre cartoon ambientato a Teheran, L’autrice racconta che effetto farebbe essere la prima iraniana a vincere l’oscar, «Certo» dice «mi aiuterebbe a fare strada…» «Non credo allo scontro fra civiltà: io vengo da una cultura, quella iraniana, dove la poesia è alla base del pensiero; ho realizzato in Francia un fumetto letto in tutto il mondo; ora sono in America in lizza per l'Oscar. Le sembra che possa trovare differenze fra Oriente e Occidente?».
Marjane Satrapi, trentotto anni, è la fumettista iraniana che con la graphic novel Persepolis pubblicata nel 2000, ha raccontato l'avvento degli integralisti islamici e gli effetti delle loro imposizioni sulla sua vita e sul Paese. Dal fumetto, peripezie di una ragazzina che all'arrivo dei mullah è spedita dai genitori in Europa, ha tratto un film a cartoni animati che uscirà in Italia il 29 febbraio e che, dopo aver ottenuto il premio della giuria a Cannes, ha conquistato la nomination agli Oscar come miglior film d'animazione insieme a Ratatouille. Così, nella patria di Disney, Satrapi rischia di essere la prima iraniana a ottenere quel riconoscimento mancato a grandi registi del suo Paese, da Abbas Kiarostami a Mohsen Makhmalbaf: con un cartone animato che ha per protagoniste donne velate. Lei ne ride, accendendo una sigaretta: «Fumo molto e in America di più: mi sono rifugiata a West Hollywood, un enclave di fumatori, sto in un albergo dove si fuma, faccio interviste fumando anche se mi guardano male. Ho vissuto in Francia perché si fumava liberamente. Non mi resta che trasferirmi in Grecia...».
Sì, ma l'Oscar?
«Sarebbe splendido, certo. Ma vincere equivale a trovare un paio di scarpe che calzano perfettamente.
! Aiutano a camminare. Mi fa piacere, j però, che sia stato selezionato come j film francese: vuol dire che non ci so no più confini, che appartiene a un luogo anche se sei immigrato. Importante, in un'epoca di nazionalismi».
A Hollywood le hanno proposto di trasformare il fumetto in serie tv, fare un film con attori veri...
«Non me la prendo per le sciocchezze dette a Hollywood, siamo in un Paese dove anche il presidente dice sciocchezze. Attori straordinari ! danno voce ai personaggi: Catherine Deneuve, Chiara Mastroianni, Sean Penn, Iggy Pop... Con attori in carne e ossa la storia avrebbe perso appeal, soprattutto i momenti onirici che il disegno esprime così bene, mostrando la realtà come la percepiamo: realistico senza essere reale».
Per questo ha voluto realizzare il film da indipendente?
«Certo, indipendenza è dire ciò che vuoi, come vuoi. Ma sono sorpresa che un lavoro personale come il mio, senza compromessi, abbia avuto risposte così positive. È il più grande regalo cui può aspirare un'artista».
Nel film racconta che da piccola sognava di diventare profeta, che In greco significava «parlare in pubblico»: ci è riuscita...
«Non mi sento profeta, cerco di fare del mio meglio e dire ciò che penso. Ma da piccola parlare era vitale, avevo l’ossessione della giustizia».
La storia parla della sua vita. Che ne pensano i suoi genitori?
«Vivono in Iran, felici del mio successo, come tutti i genitori. Cosa pensano dovrebbe chiederlo a loro. Però non ho raccontato la mia vita a fumetti, ho usato me stessa per dire ciò che mi stava a cuore. Se non fossi partita dalla mia storia privata avrei fatto sociologia: e ho usato le immagini perché sono la mia lingua. Ho sintetizzato sedici anni selezionando momenti che facessero riflettere, perché per essere universali bisogna partire dal personale. Il film inizia con me all'aeroporto, episodio triste e reale, ma anche scena efficace: che abbiamo reso a colori sovvertendo la legge per cui colore è allegria, bianco e nero tristezza. Con Vlncent Paronnaud, (altro regista, ho cercato soluzioni stilistiche in classici americani, nell'espressionismo tedesco. E per le scene familiari abbiamo guardato al neorealismo italiano».
Un trionfo mondiale. E In Iran?
«II fumetto circola, gli amici dicono che tutti lo adorano. Ma non so quanti siano questi tutti: e poi non direbbero mai che qualcuno mi detesta».
Invece in America, dove il presidente Bush ha messo l'Iran tra i Paesi dell'asse del male, il film va molto bene...
«Bush è un idiota, gli americani no. Ormai è impopolare quanto la sua politica, un fanatico che mi fa paura anche se si fa la barba tutti i giorni e porta la cravatta. Fanatico è chi dice: se non la pensi come me sei contro di me. Nel mio Paese sono i mullah, è ovvio. Ma non c'è differenza fra un musulmano fanatico, un cristiano fanatico, un ateo fanatico. Ora tifo Obama. Fa un discorso chiaro. Poi fuma: e chi fuma è sempre più tollerante. Comunque Persepolis non è un film politico: esprime amore per il mio Paese, per la mia famiglia».
Il messaggio del film non è certo neutrale.
«Per me la politica è dare risposte semplici a questioni complicate. Il mio film racconta una storia: sta al pubblico rifletterci su».
Da quanto tempo manca dall'Iran?
«Otto anni. Indovini perché...».
Da Il Venerdì di Repubblica, 15 febbraio 2008

di Anna Lombardi, 15 febbraio 2008