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Il mio sogno più grande, minuto per minuto

Dura poco più di una partita il film che racconta la storia (calcistica) della famiglia Shue.
di Tirza Bonifazi Tognazzi

La famiglia Shue e il calcio

martedì 15 luglio 2008 - Incontri

La famiglia Shue e il calcio
Prima di diventare un'attrice riconosciuta in tutto il mondo con una nomination all'Oscar e un Golden Globe all'attivo, Elisabeth Shue era una ragazzina in tenuta sportiva che giocava a calcio con la maglia numero sette. Cresciuta in una famiglia dominata dai maschi - era l'unica femmina dei fratelli Shue, William, Andrew e John - la piccola Lisa è presto diventata una promessa del calcio, salvo poi abbandonarlo per intraprendere la carriera di attrice. Il mio sogno più grande racconta la sua storia e quella del fratello William, scomparso nel 1988 in un tragico incidente durante una vacanza di famiglia. "Sono passati vent'anni da quando è morto" ha dichiarato Andrew, co-interprete e produttore del film. "Solo adesso riusciamo a parlarne senza essere sopraffatti dal dolore. Era una persona incredibile, che ha insegnato ad ognuno di noi cosa conti realmente nella vita e nei rapporti con gli altri, oltre all'importanza di non darsi mai per vinti, in qualunque circostanza. Avevo in mente di raccontare questa storia da almeno dieci anni. Volevo rendere omaggio alla memoria di Will per ricordare la nostra amata giovinezza, utilizzando come sfondo della vicenda il calcio, che è stato il nostro sport di famiglia".

Sognando il calcio (di rigore)
Da piccola giocavo a calcio. Ho iniziato a nove anni e al mio primo giorno sul campo da gioco un ragazzino decisamente antipatico mi ha rubato il pallone dicendo che era una roba per maschi. A differenza della Gracie del film io non avevo lo stesso spirito forte e testardo, ho iniziato a piangere e sono corsa via. Mio padre era là e mi ha costretta a tornare in campo. L'allenatore ha fermato la partita e ha tuonato: "Maschi e femmine possono giocare a calcio, e questo è quanto". Sono stata fortunata, perché la sua dichiarazione ha legittimato il mio diritto a giocare.

Il calcio, un affare di famiglia
Nella nostra famiglia, come in quella di Gracie, l'unico modo per catturare l'attenzione era quello di segnare goal e di distinguersi in ambito sportivo. Amavo il calcio, anche se, alcune volte, essere l'unica ragazza in una squadra di maschi mi faceva sentire molto sola. Sei costretta a dare sempre il massimo e questo mi rendeva nervosa. Volevo provare che appartenevo al campo di gioco. Mi piaceva anche la competizione e il fatto di riuscire ad essere considerata alla pari dei miei compagni maschi.

La leva calcistica della classe di Elisabeth
La figura dell'allenatore nel film è basata su questo personaggio reale che diceva che sarei stata la prima ragazza a giocare in una squadra universitaria di maschi se avessi continuato la carriera di calciatore. Come molti altri ragazzi della mia età - all'epoca avevo tredici anni - ero molto vulnerabile a quello che diceva e pensava la gente di me. Oltretutto ero nell'età dello sviluppo e il mio corpo stava cambiando. Nonostante ciò ho continuato a giocare e sono addirittura finita nella squadra femminile della Junior Varsity di Harvard. È incredibile come oggi tutto ciò sia cambiato. Il calcio femminile è cresciuto molto in questi anni.

Davis Guggenheim, un regista speciale
Avere mio marito come regista di questo film è stata una benedizione e ha cambiato tutto. Ci fidavamo totalmente di lui, del suo talento e del suo amore nei confronti della storia e della nostra famiglia. E siccome era il primo a volere che Il mio sogno più grande fosse reale e autentico, sin dagli inizi gli abbiamo dato carta bianca. Davis è stato il nostro leader ma allo stesso tempo tutti noi avevamo voce in capitolo. Chiedeva continuamente la nostra opinione perché sapeva che avevamo un'idea precisa di cosa volevamo che emergesse dal film. Abbiamo formato un team molto fertile che nei giorni buoni discuteva in maniera creativa e nei giorni meno buoni discuteva e basta. Tuttavia c'è stata una grande comunicazione e anche quando non ci trovavamo d'accordo su qualcosa eravamo comunque spinti dall'amore.

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