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Smontare un pregiudizio a furia di parole

Della pièce teatrale di Reginald Rose "La parola ai giurati" esistevano già due versioni cinematografiche: quella, famosa, del 1957, diretta da Sidney Lumet, interpretata da Henry Fonda e plurinominata agli Oscar, e una di quarant'anni dopo con Jack Lemmon. Lunghe, rispettivamente: poco più di un'ora e poco meno di due. Realizzandone la parafrasi russa, Nikita Mikhalkov (che il testo l'aveva già messo in scena in un teatro di Mosca) estende la durata a 150 minuti: eppure riesce a tenere alta la tensione malgrado l'impianto claustrofobico e lo sviluppo drammatico affidato esclusivamente alle parole; tanto che lo spettatore si lascia sequestrare di buon grado nell'unico luogo (una palestra) dove, in unità di tempo, si svolge la vicenda (soltanto la parte finale, con un simbolico uccellino che svolazza oltre la conclusione dei fatti, appare stiracchiata). Rispetto all'originale, 12 non si concede troppe libertà: focalizza sui dodici giurati di un processo che devono emettere la sentenza intorno al caso di omicidio di cui è accusato un adolescente.
Anche il dispositivo drammatico resta il medesimo: undici di loro optano a priori per la colpevolezza; uno solo avanza dubbi e, poco a poco, demolisce i pregiudizi e l'indifferenza degli altri fino a ridisegnare gli equilibri tra colpevolisti e innocentisti. Quel che cambia invece, e vistosamente, è il contesto: il giovane è ceceno e la vittima un ufficiale russo, suo padre adottivo. Punteggiando la claustrofobia dell'impianto con alcuni flashback sul conflitto in Cecenia, spina tra le più dolorose piantate nell'anima russa, Mikhalkov riesce ad appassionarci al dibattito quanto il suo predecessore Lumet. Sotto la grande ala di Dostoevskij, il regista prende per sé la parte del difensore impegnato a persuadere gli altri; ma lo fa con inattesa lentezza, restando a lungo in disparte per acquistare poi la statura del protagonista. Prima e dopo, è attorniato da un cast di attori eccezionali (a Venezia, dove il film era in concorso, molti si aspettavano un premio collettivo), capaci di incarnare diverse tipologie emblematiche della Russia d'oggi (il neocapitalista, il nostalgico del comunismo, l'antisemita...) senza perdere credibilità e umanità individuale. Per ottenere un tale risultato, Mikhalkov ha usato un metodo in sintonia con l'impianto teatrale del film ma atipico per il cinema: ciascuno degli interpreti ignorava se la macchina da presa inquadrasse lui o un altro; così da ottenere il massimo della concentrazione e del gioco di squadra. Discorso differente, poi, se 12 sia inquadrabile in una tendenza neo-celebrativa del cinema russo (il regista non fa mistero delle proprie simpatie per Putin); o se il buonismo del finale non debba considerarsi una mano di vernice spalmata sulla cattiva coscienza dei russi nei confronti della Cecenia. Però c'è una vena di compassione e di umanesimo che suona sincera; e l'esortazione del giurato a "parlare ancora un po'" delle cose che ci sembrano assodate a prima vista è qualcosa assolutamente di sacrosanto.
Da La Repubblica, 27 giugno 2008


di Roberto Nepoti, 27 giugno 2008