Memorie di una geisha

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Un film di Rob Marshall. Con Ziyi Zhang, Ken Watanabe, Kôji Yakusho, Michelle Yeoh, Kaori Momoi.
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Titolo originale Memoirs of a Geisha. Drammatico, durata 137 min. - USA 2005. uscita venerdì 16 dicembre 2005. MYMONETRO Memorie di una geisha * * * - - valutazione media: 3,42 su -1 recensioni di critica, pubblico e dizionari.
   
   
   

Irene Bignardi

La Repubblica

Come capita sempre quando un libro è stato un grande successo, molto amato e molto fortunato e molto miliardario (il che, nel nostro caso, vuol dire che oltre quattro milioni di lettori si sono precipitati a comprarlo, che ci sono state traduzioni in ventisei lingue, che legioni di appassionati hanno delle aspettative ben coltivate e che la storia è stata immaginata e fantasticata in molti modi diversi), anche Memorie di una geisha, che arriva il 16 dicembre in forma di film, susciterà le necessarie perplessità.
La prima coincide con un problema che era stato sollevato anche per il libro: Il punto di vista occidentale. Come Arthur Golden, l’autore del fortunato e appassionato bestseller pubblicato nel 1997 (edito in Italia da Tea e ora ripubblicato da Longanesi), anche il regista che ha preso il posto di Steven Spielberg — il quale, all’uscita del libro, si era precipitato ad annunciare la sua intenzione di trarne un film, e che in effetti, del film in questione, è ora il produttore — anche il regista, dicevamo, è un occidentale. Molto occidentale. Colui che due anni fa fece un pieno di Oscar con Chicago, Rob Marshall, e che prima si era dato lustro per una versione televisiva di Annie.
Eppure, miracolo della mimesi, nel solco di una lunga tradizione di viaggi culturali nel mondo altrui — quella che, tanto per dire, è stata raccontata anni fa da una retrospettiva del Festival di Locarno, dedicata proprio ai rapporti tra gli orientali e il cinema occidentale — Rob Marshall ce l’ha fatta. Soprattutto dal punto di vista delle immagini, che ricreano in maniera fascinosa, grazie alle luci di Dion Beebe e alla scenografie di John Myhre (che aveva firmato anche Elizabeth) il mondo del Giappone degli anni Trenta e Quaranta. E in Italia, dove siamo abituati alle gioie e ai dolori del doppiaggio, la curiosa impressione di questi giapponesi che parlano tutti inglese non dovrebbe ferire la sensibilità filologica di nessuno.
Per il resto, il film conta su un cast stellare, almeno per chi abbia anche solo poco frequentato il cinema orientale, che ha conquistato in questi anni le sale occidentali. Ecco quindi che la protagonista ha il bel volto pallido di Ziyi Zhang, già vista in La foresta dei pugnali volanti di Zhang Yimou e in 2046 di Wong Kar-wai. L’uomo che lei ama per tutta la vita è il bel Ken Watanabe, interprete di L’ultimo samurai e di Batman Begins. La sua amica e protettrice è Michelle Yeoh, già ragazza 007 e donna di spada in La tigre e il dragone. La bellissima Gong Li è una cattivona che per gelosia le fa la guerra. Qualcuno oserà obiettare che in questa storia giapponese troppe signore sono cinesi e non nipponiche? Sottigliezze, obietteranno altri: si sa che, ahinoi, per gli occidentali gli orientali non sono facilmente distinguibili gli uni dagli altri...
A suo tempo, Arthur Golden - lui stesso un personaggio romanzesco, miliardario di Chattanooga, Tennessee, della famiglia dei proprietari del New York Times, una laurea a Harvard e un master in storia giapponese, una vita da eterno studente-studioso, un romanzo d’esordio folgorante su cui ha impiegato, tra i lazzi e i frizzi della sua potente famiglia, dieci anni di lavoro — Arthur Golden diceva: «Ci sono due miti a proposito delle geishe. Uno è che sono delle prostitute. Questo mito è sbagliato. L’altro è che non sono delle prostitute. Anche questo è sbagliato».
Un bel pasticcio tra essere e non essere, che il suo romanzo illustra molto bene, nonostante la geisha a cui il libro si è da lontano ispirato, Mineko Iwasaki, abbia a suo tempo accusato lo scrittore di tradimento nei suoi confronti e nei confronti di Gion, uno dei quartieri delle geishe in cui si svolge la storia raccontata da Golden, perché nel libro ci sarebbe troppo sesso, e lei, ovviamente, appartiene alla scuola di pensiero del mito numero due.
Il libro, e quindi anche il film, racconta la storia di Chiyo, una ragazzina di nove anni dagli straordinari occhi blu-grigi che viene venduta dal padre, un poveraccio, a una okiya, una casa di geishe, all’interno della quale, tra rigida disciplina, gelosie, risse, amicizie e inimicizie, crescerà come Sayuri, la geisha più raffinata e ricercata del suo tempo. Una geisha che coltiva un suo segreto sogno d’amore per l’uomo gentile che l’ha incontrata per strada, bambina sola e triste, e l’ha riempita di gentilezze. Una geisha che dovrà affrontare la realtà della guerra, la volgarità del dopoguerra, i cambiamenti del suo mondo, in un crescendo romantico.
Ma, appunto, cosa sono le geishe? Siamo nel terreno minato dell’ignoranza occidentale, e quindi ci limiteremo a riferire quello che dice Arthur Golden in un’intervista dove si attiene al mito numero due: «Le geishe non sono prostitute, non sono istruite per fare sesso. Il loro lavoro consiste nell’intrattenere un gruppo di uomini bevendo e con una conversazione spiritosa. Ridono alle cose che dici, ti fanno sentire affascinante. . .».
Abilità, se così le si vuole vedere, che nascono dopo un lungo e spesso duro tirocinio, durante il quale la geisha deve imparare a suonare, a cantare, a danzare, a parlare con grazia. Non senza dovere sostenere l’orribile rituale della svendita della sua verginità.
L’idea di scrivere un romanzo sul mondo delle geishe nacque quando Golden lavorava a Tokyo per una rivista di lingua inglese accanto a un collega figlio di un industriale e, appunto, di una geisha. Affascinato da questa situazione, prima Golden ha tentato la strada della non-fiction. Poi il romanzo in terza persona. Poi, con quella che il Critico del New York Times Michiko Kakutani ha chiamato un’operazione da ventriloquo, è passato alla prima persona. Un punto di vista narrativo che il film rispetta, con una voce off che racconta e raccorda i vari momenti della vita di Sayuri. E la stessa precisione (tuttavia contestata da taluni) che Golden ha messo nel descrivere i riti di vita delle geishe — il kimono, il trucco, le pettinature, la vita in comunità — la ritroviamo nel film e nella ricostruzione di un mondo che sta sparendo sotto la spinta della globalizzazione. Ai tempi d’oro c’erano almeno ottocento geishe nel quartiere di Gion, a Tokyo. Oggi ce ne sono al massimo ottanta. E ora le aspiranti geishe non vestono il kimono, ma Prada.
Da Il Venerdì di Repubblica, 9 dicembre 2005


di Irene Bignardi, 9 dicembre 2005

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