Il grande silenzio

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Un film di Philip Gröning. Titolo originale Die grosse Stille. Religioso, durata 162 min. - Germania 2005. uscita venerdì 31 marzo 2006. MYMONETRO Il grande silenzio * * * - - valutazione media: 3,42 su -1 recensioni di critica, pubblico e dizionari.
   
   
   

IL GRANDE IATO FRA DIO E L'UOMO Valutazione 4 stelle su cinque

di THEOPHILUS


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martedì 26 novembre 2013

DIE GROßE STILLE
 
Il giudizio critico relativo a Die große stille, Il grande silenzio (Philip Gröning, Germania, 2005) rischia fortemente una deriva moralistica, che si cercherà in tutte le maniere di limitare e, se possibile, evitare completamente.
Presentato a Venezia 2005, a Toronto, a Rotterdam, premiato al Sundance Film Festival e alla Berlinale 2006... Quanto già di coerente c’è in questo pedigree con un mondo inespugnabile e ora documentato, con l’astrazione pura paradossalmente fatta di cose semplici e concrete situata di fronte ad un palcoscenico potenzialmente universale, con la ricerca prettamente personale di Dio – guidata, beninteso, da un assoluto percorso ascetico- individuata dall’occhio globalizzante di una pur rigorosa cinepresa?
Queste domande confluiscono sinteticamente in due principali perché. Dal punto di vista cinematografico, perché il regista ha voluto girare questo documentario? Da quello dei frati certosiniche vivono nel monastero della Grande Chartreuse, presso Grenoble, nelle Alpi francesi, perché hanno consentito a farlo girare?
Che cosa ha portato a maturazione, sedici anni dopo, quei tempi che nel 1984 erano stati ritenuti non ancora pronti dai religiosi, che si erano opposti alla richiesta del regista tedesco?
Le immagini del film dovrebbero esprimere il viatico ed essere la spiegazione del perché di quella scelta di vita. Visioni immobili, fermate in un tempo astorico e che ritornano incessantemente, suggerite dalla cinepresa fissa sulla vallata a testimoniare rapidamente il lento ma incessante avvicendarsi delle ore, senza che nulla muti se non la presenza della luce e il fantasticare delle nuvole. Camere vuote, scabre, che non hanno niente di punitivo, non appaiono prigioni, ma eremi. Lunghi corridoi percorsi dai frati chi con passo veloce, possente, sicuro, chi con incedere lento, meditativo, assorto. Le stagioni che s’inseguono. La vita sempre uguale, segnata dalla liturgia, da espressioni di una fede che è sorretta da un’impenetrabile, intimo colloquio con la divinità. Frasi evangeliche che ricorrono in sovrimpressione a scolpire quella vita, già testimoniata dalle immagini. Ritorna più di ogni altro l’ammonimento di Cristo a lasciare ogni ricchezza, per poter essere considerati suoi discepoli. Simboli di un’esistenza reale che trascorre all’insegna di un incontro personale ed incessante con il grande mistero dell’uomo, ma anche in un lavoro semplice, continuo, al servizio degli altri: la preparazione del cibo, seminare, ripulire gli orti dalla neve, rasare le teste dei confratelli, tagliare e cucire la tela per foggiare nuovi sai, riparare calzature.
Ma, soprattutto, prima  ancora delle immagini, è il silenzio che cattura, non artificiale o imposto, bensì condizione necessaria a quell’esistenza. Così avvertiamo lo scricchiolio delle panche o il respiro di voci che stanno per espandersi nel vuoto come un preludiare con l’enigma mistico.
Sorge in noi, spontanea, un’altra domanda. È il bisogno di cercare Dio o quello di sfuggire il mondo a guidare l’esistenza dei frati Certosini? Le due cose sembrano nutrirsi l’una dell’altra. Quella vita preserva i religiosi dalla falsa vita, ne sono difesi, non la disprezzano ma la temono come evidente ostacolo sul loro cammino di ricerca inestinguibile.
Continuiamo ad interrogarci sul perché di questa contaminazione e l’eventuale risposta di un desiderio di fare proseliti non ci soddisfa. Una sola possibile reale chiamata supponiamo che sarebbe controbilanciata da un numero imprecisato di avventure radical chic, di chi si bei nella ricerca di una vacanza diversa, all’insegna del brivido dell’autoflagellazione. Philip Gröning che cos’ha fatto, poi, se non incasellare nell’immenso schedario cinematografico questa ulteriore tessera, che sarà presto dimenticata, omologata insieme alle altre, un po’ come l’arca ritrovata da Indiana Jones che alla fine del film I predatori dell’arca perduta (1981, Steven Spielberg) viene infilata in mezzo a mille altri reperti, con un semplice numero di protocollo? Forse un’inutile e blasfema violenza, non redenta dal rigore professionale.
La cinepresa di tanto in tanto si sofferma per alcuni secondi sul viso dei singoli frati, tre per volta, in sei successivi momenti. Sguardi sereni, ma anche fieri, oppure ingenui. La ripetitività dei gesti quotidiani non incide negativamente sul loro spirito come la routine che addormenta e riduce la durata del vivere secolare, ma sembra rafforzare la loro certezza di avvicinarsi alla meta.
Ancora, la preghiera, il tirare la corda per fare risuonare le campane - forse ad annunciare che si è raggiunta o conquistata una conoscenza o una nuova serenità interiore -, il calpestare gli stessi anditi, il meditare nelle proprie camere.
Ci sono, poi, i momenti comuni. Il pasto conviviale, solo la domenica, i canti liturgici, le camminate settimanali fuori dal convento per ritemprare o mortificare lo spirito. È un documentario, ma a volte sembra fiction. Qualche frate non può fare a meno di accorgersi della presenza della cinepresa e, allora, il regista può dare l’impressione di avere operato in certi momenti con la cinepresa nascosta, una sorta di candid camera. Quelle brevissime digressioni vengono così ricucite  e ricondotte al semplice rigore che allontana nello spettatore il sospetto di un irrigidimento innaturale o di un atteggiarsi da parte dei frati. Viene anche filmato il momento dell’accoglimento di due nuovi fratelli che avranno il tempo e il modo di confermare o meno la loro decisione, così come saranno esaminati dagli altri che giudicheranno la loro idoneità a quell’esistenza.
Abbiamo rilevato tre piccoli contatti col mondo esterno, che forse rendono un po’ meno tetragona l’autarchia dei frati certosini: una mela con un bollino, una bottiglia di plastica contenente acqua minerale, un frate che calza scarpe da ginnastica. Momenti di dubbia interpretazione.
Alla fine permane un senso di smarrimento e soprattutto le domande iniziali restano senza risposta. A che cosa tende quella violazione? Che cosa vuole dimostrare? C’è del compiacimento estetico e una punta di edonismo nel mostrare quel mondo ieratico, chiuso, inaccessibile (ma che, proprio grazie al documentario, tale non è più)?
C’è anche un terzo importante perché. Perché pubblico e critica hanno decretato il successo di Die große stille? Leggiamo, infatti, che in Germania, nei primi dieci giorni di uscita del film solo in 9 copie, lo stesso è stato visto da 25mila spettatori. È un vero bisogno di purezza o una sorta di autocertificazione di buona condotta, un lasciapassare per l’anima o un accomodante accatastare in un punto della memoria il dato che esiste anche quel mondo, per poi non precludersi la possibilità di andarlo a visitare?
Ad un tratto la cinepresa si sofferma sulle gocce di pioggia che creano un vorticoso movimento di cerchi concentrici all’interno di una pozzanghera. Forse il senso del film sta proprio lì: quel silenzio e quella fissità esteriore soli possono consentire un allargamento del pensiero verso una ricerca inesauribile di Dio. Una sublime utopia o una grande illusione?
 
Enzo Vignoli,
24 aprile 2006.

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