Sideways - In viaggio con Jack

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Un film di Alexander Payne. Con Paul Giamatti, Virginia Madsen, Sandra Oh, Marylouise Burke, Jessica Hecht.
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Titolo originale Sideways. Commedia, durata 124 min. - USA 2004. uscita venerdì 11 febbraio 2005. MYMONETRO Sideways - In viaggio con Jack * * * 1/2 - valutazione media: 3,83 su -1 recensioni di critica, pubblico e dizionari.
   
   
   

Marco Cicala

Il Venerdì di Repubblica

Nella sua casa di San Pedro (California), Charles Bukowski scriveva di notte aiutandosi con la birra. Poi di colpo passò al vino. Perché sosteneva che, a differenza dell’altra bevanda, non lo obbligava ad alzarsi ogni mezz’ora per andare al gabinetto. Fino ad oggi, dalla letteratura al cinema, anche nell’immaginario Usa il vino era entrato per così dire di notte e in punta di piedi. Per decenni, nella cultura alcolica (e alcolizzata) degli States, la bottiglia è rimasta, incontrastata, quella del bourbon o dello scotch. Virilmente tracannati d’un sol colpo nei saloon o elegantemente sorseggiati nei salotti delle sophisticated comedy.
C’è voluta una piccola produzione come Sideways, del regIsta Alexander Payne (ora nei cinema italiani, ma già «cult» oltreoceano e candidato a cinque Oscar, tra cui quello per il miglior film), per sdoganare il vino dalla marginalità in cui Hollywood l’aveva relegato. Già, perché, per la prima volta nella storia del cinema americano, in Sideways si parla di rossi e bianchi con passione e pignoleria enolgica che fino a oggi sembrava solo europea. A farlo, citando vitigni, annate, etichette, sono i protagonisti Miles e Jack, buontemponi sentimentali e «falliti» di mezz’età, che vagano e discettano da degustatori tra i vigneti californiani.
Il successo nelle sale non ha fatto contenti solo i produttori del film, ma anche tour Operator e, ovviamente, viticoltori. Perché (come avvenuto per la Montmartre del Favoloso mondo di Amélie, i campi di mais dello lowa nell’Uomo dei sogni con Kevin Costner, o per le montagne neozelandesi del Signore degli Anelli, senza parlare di quando il Codice da Vinci diventerà film) anche i luoghi di Sideways - la regione vinicola di Santa Barbara - sono diventati attrattiva turistica. E su Internet si sprecano ormai le offerte di viaggi enologici attraverso le «Langhe» californiane. Non lasciamoci offuscare dall’alcol: per quanto simpatico e raffinato, anche questo è patriottismo stelle e strisce (oppure chiamatelo protezionismo). Con buona pace dei francesi, i pontefici del buon bere, che l’America, quella di Bush in particolare, non ha mai avuto troppo in simpatia.
Perciò largo ai Pinot, Sauvignon Blanc, Cabernet, Merlot, Chardonnay... made in Usa. Ha detto il regista Alexander Payne (nominato all’Oscar sia come regista che sceneggiatore): «L’industria statunitense è ormai riuscita a democratizzare il vino».
Hollywood, Invece, non l’aveva democratizzato per niente, presentandolo, dl norma, come merce esotica, aristocratica e un po’ decadente. Lusso riportato in dote negli States dagli artisti espatriati della Lost Generation: quelli della «Parigi da bere» dei folli anni Venti, Fiztgerald, Hemingway e compagnia. E vezzo snob delle élite europeizzate il vino lo è rimasto, anche nei film genere Woody Allen, dove nevrotici intellettualoidi newyorkesi annusano e degustano rossi pregiati in grandi calici, nelle enoteche chic di Manhattan
Eppure, prima di diventare status symbol di borghesi e parvenus, il vino aveva incarnato nel cinema americano l’esatto contrario: bevanda povera destinata ai poveri, immigrati, sradicati, bohémiens. I diseredati raccontati da John Steinbeck in libri come Pian della Tortilla (trasformato nel 1942 un film con Spencer Tracy). O, più tardi, i beat, mezzi poeti e mezzi straccioni, di cui, nel famoso poema HowI, Allen Ginsberg scriveva: «Si tiravano su da incubi di cantine ubriachi di Tokay spietato e da orrori di sogni di ferro della Terza Strada e inciampavano verso l’Ufficio Assistenza». Hollywood li raffigurò, ma in versione edulcorata, modaiola e conformista in La nostra vita comincia di notte (1960), brutto film con George Peppard e Leslie Caron, infedelmente tratto dal romanzo I sotterranei di Jack Kerouac.
Tre anni dopo, invece, in I giorni del vino e delle rose, il re della commedia Blake Edwards imbarcava Jack Lemmon e Lee Remick in un drammone moraleggiante su una coppia middle class che annega nell’etilismo per poi redimersi. Proprio come Ray Milland in Giorni Perduti (1945, regia di Billy Wilder) che però, pur accusando gli anni, resta a tutt’oggi un capolavoro terrificante sulla schiavitù alcolica.
Ma il vino scorre, più o meno sotterraneo, anche nei grandi film dei figli dell’immigrazione come John Cassavetes (di famiglia greca) o Francis Ford Coppola, che nel Padrino (1972) ne fa metafora dello spirito di clan e richiamo alle origini.
Frugando in film più recenti si scoprono, però, cultori di buone bottiglie anche dove meno te lo aspetteresti. Dal romanzo di Thomas Harns Il Silenzio degli innocenti veniamo a sapere che Hannibal Lecter, dandy e serial killer, non è soltanto un fine gourmet di carne umana ma pure un patito dell’Amarone. Che, però, nel film pluridecorato (cinque Oscar) di Jonathan Demme diventa un Chianti. Meno impegnativo e, soprattutto, più facilmente spendibile davanti al grande pubblico Usa. Forse ancora largamente incollato all’immagine del bere all’italiana col fiasco di rosso sopra la tovaglia a scacchi.
Da Il Venerdì di Repubblica, 18 Febbraio 2005


di Marco Cicala, 18 Febbraio 2005

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