paride86
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domenica 28 dicembre 2008
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lucidamente commovente
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"Le chiavi di casa" sta a metà tra un film e un documentario per il sociale, muovendosi su binari non sempre credibili. Non sono plausibili, per esempio, il prologo e le motivazioni che spingono Gianni, dopo tanti anni, ad intraprendere un viaggio così difficile con il figlio, oppure l'affetto improvviso che matura per il ragazzo. Eppure la storia è toccante ed emotivamente coinvolgente e il film ha il pregio di non scadere nel drammone lacrimoso, ma anzi, rimane lucido e a volte anche amaro (lo sfogo della Rampling, per esempio). Buone le prove degli attori, sempre credibili.
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joefrost
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mercoledì 20 settembre 2006
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impariamo ad amare
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Gianni Amelio ci regala il suo film più bello, più intenso. La storia di un padre (Rossi Stuart, ottimo attore drammatico e vincitore meritato di un globo d'oro) che decide di incontrare per la prima volta il suo primo figlio, portatore di handicap (uno straordinario Andrea Rossi). Insieme fanno un viaggio che li porterà fino ai fiordi della Norvegia, e nonostante anni di silenzio assoluto, Gianni imparerà ad amare quel figlio abbandonato in fasce dopo la morte della compagna durante il parto.
Il film è intenso, per niente retorico, le musiche accompagnano in maniera impeccabile il dipanarsi della vicenda, Charlotte Rampling regala la sua classe e la sua intensità al film, Pierfrancesco Favino lascia il segno (e conquista un ciak d'oro) pur restando in scena pochi minuti.
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Gianni Amelio ci regala il suo film più bello, più intenso. La storia di un padre (Rossi Stuart, ottimo attore drammatico e vincitore meritato di un globo d'oro) che decide di incontrare per la prima volta il suo primo figlio, portatore di handicap (uno straordinario Andrea Rossi). Insieme fanno un viaggio che li porterà fino ai fiordi della Norvegia, e nonostante anni di silenzio assoluto, Gianni imparerà ad amare quel figlio abbandonato in fasce dopo la morte della compagna durante il parto.
Il film è intenso, per niente retorico, le musiche accompagnano in maniera impeccabile il dipanarsi della vicenda, Charlotte Rampling regala la sua classe e la sua intensità al film, Pierfrancesco Favino lascia il segno (e conquista un ciak d'oro) pur restando in scena pochi minuti.
Amelio ci insegna a voler bene a chi è diverso da noi, la vergogna a volte ci rende egositi, intolleranti, ma non dimentichiamo che intorno a noi c'è tanta gente che ha bisogno di una mano, per quanto tempo saremmo disposti a far finta di nulla, a pensare solo a noi stessi?
Ognuno di noi ha diritto di vivere il più a lungo possibile, certo, mi rendo conto che non sempre sia facile vivere accanto a chi ha dei problemi fisici e/o mentali, ma queste persone ci possono insegnare tanto, a volte ci fanno paura, ma non ci rendiamo conto dell'amore che possono e che devono trasmettere!
La pellicola avrebbe meritato un bel premio a Venezia nel 2004, ma purtroppo è andata male (come quest'anno a "La stella che non c'è"), peccato, comunque resta un piccolo garnde film, un gioiello che può impreziosire la nostra vita in senso mentale e spirituale.
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stefano84
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martedì 27 gennaio 2009
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quello che si dice un film socialmente impegnato
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Il film "le chiavi di casa" dà l'impressione ad un primo sguardo di essere il classico film strappalacrime che tange luoghi comuni come quello della soffrenza dei disabili e di chi,ancor piu', ha il compito di doversi dedicare alla loro cura.Ma il film necessita di una dovuta riflessione per comprendere come esso possa essere interpretato come un realistico documentario incentrato sulla condizione in cui si trovano coloro che devono affrontare una situazione difficile come quella narrata nel film.Rimanendo nell'ambito della critica del film si puo' dire che questo narra bene negli strettissimi tempi cinematografici (che per Gianni Amelio sembrano essere sempre molto stretti a vedere anhe la durata dei suoi precedenti film)la vicenda di Paolo e Gianni.
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Il film "le chiavi di casa" dà l'impressione ad un primo sguardo di essere il classico film strappalacrime che tange luoghi comuni come quello della soffrenza dei disabili e di chi,ancor piu', ha il compito di doversi dedicare alla loro cura.Ma il film necessita di una dovuta riflessione per comprendere come esso possa essere interpretato come un realistico documentario incentrato sulla condizione in cui si trovano coloro che devono affrontare una situazione difficile come quella narrata nel film.Rimanendo nell'ambito della critica del film si puo' dire che questo narra bene negli strettissimi tempi cinematografici (che per Gianni Amelio sembrano essere sempre molto stretti a vedere anhe la durata dei suoi precedenti film)la vicenda di Paolo e Gianni.Mai troppo esasperata è l'introspezione dei personaggi, che mostrano le insicurezze che ad una attenta analisi possono definirsi in maniera cruda "normali" di fronte a situzaioni del genere.Gianni Amelio è riuscito anche a far capire a noi gente comune come è strano il mondo dei ragazzi come Paolo sempre al confine tra la lucidità e il buio della ragione (attraverso le parole della Rampling che cerca di spiegare a Gianni-Kim rossi..che l'unico perchè razionale al fatto che Paolo sia scappato è la malattia che lo affligge)che forse è anche la cosa che piu' spaventa e che è piu' difficile da accettare(ci fa capire quanto sia doloroso accettare cio' che non si riesce a comprendere).Infine si puo' dire un buon film che cerca di aprire una breccia in un mondo dove,spesso, gli emarginati non sono solo i disabili ma anche coloro che gli stanno al fianco.
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great steven
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lunedì 25 luglio 2016
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un padre e un figlio che riscoprono l'amore.
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LE CHIAVI DI CASA (IT/FR/GERM, 2004) diretto da GIANNI AMELIO. Interpretato da KIM ROSSI STUART, ANDREA ROSSI, CHARLOTTE RAMPLING, ALLA FAEROVICH, PIERFRANCESCO FAVINO, MANUEL KATZY, MICHAEL WEISS, THORSTEN SCHWARZ
Gianni è un uomo ancora giovane che vive con la moglie che gli dà dato da poco un bambino, ma aveva già avuto un altro figlio, di nome Paolo e nato con un grave handicap psicomotorio, che ha sempre rifiutato di vedere. Quando però lo zio del ragazzino, Alberto, cognato acquisito di Gianni, lo contatta per obbligarlo ad instaurare un rapporto, Gianni non se la sente di tirarsi indietro. Sale dunque, insieme al figlio minorato, su un treno diretto in Germania, dove Paolo riceverà le cure necessarie per migliorare le sue capacità locomotorie.
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LE CHIAVI DI CASA (IT/FR/GERM, 2004) diretto da GIANNI AMELIO. Interpretato da KIM ROSSI STUART, ANDREA ROSSI, CHARLOTTE RAMPLING, ALLA FAEROVICH, PIERFRANCESCO FAVINO, MANUEL KATZY, MICHAEL WEISS, THORSTEN SCHWARZ
Gianni è un uomo ancora giovane che vive con la moglie che gli dà dato da poco un bambino, ma aveva già avuto un altro figlio, di nome Paolo e nato con un grave handicap psicomotorio, che ha sempre rifiutato di vedere. Quando però lo zio del ragazzino, Alberto, cognato acquisito di Gianni, lo contatta per obbligarlo ad instaurare un rapporto, Gianni non se la sente di tirarsi indietro. Sale dunque, insieme al figlio minorato, su un treno diretto in Germania, dove Paolo riceverà le cure necessarie per migliorare le sue capacità locomotorie. Nel paese tedesco, l’uomo fa la conoscenza di Nicole, una donna inglese poliglotta che vive una situazione analoga alla sua, avendo anch’ella una figlia diversamente abile. Le vicissitudini porteranno Gianni a sfidare le proprie convinzioni, ad ampliare il proprio bagaglio emotivo, a mettere in discussione i pilastri su cui aveva fondato i suoi pensieri, fino a trasformare l’ineliminabile ritrosia iniziale in un amore viscerale ed estremamente sincero per una creatura umana cui solo all’apparenza sembra che non le importi nulla di suo padre. Quando poi padre e figlio lasceranno clandestinamente e felicemente l’ospedale tedesco per recarsi in Norvegia, dove pare abitare una giovane molto carina che Paolo ha visto solo ritratta su una cartolina, l’amore paterno-filiale troverà la sua definitiva e completa maturazione. Non è un film che sfrutta la banalità del suo argomento, e già questo rappresenta un fondamentale punto a suo favore, perché il rischio di scivolare nella retorica è sempre presente e pressante, quando il tema in questione è, per sua natura, delicato e di difficile trattazione. Il merito va in particolar modo ad Amelio, che ha saputo fondare le basi della sua commovente e straziante storia a partire dal desiderio di porre domande senza fornire risposte: non a caso, i frequenti sbandamenti emotivi di Paolo non ricevono alcuna spiegazione, quando Gianni gliene richiede, e per di più è voluta la scelta di non far confessare all’introverso genitore il motivo per cui nasconde la sua paternità quando conosce Nicole (una C. Rampling, oltre che bravissima a non farsi doppiare, anche splendidamente inusuale in un ruolo da cui traspaiono contemporaneamente un’apertura sentimentale deliziosa e una chiusura introspettiva interessante). K. Rossi Stuart ci mette un impegno assolutamente lodevole nel tracciare il ritratto di un italiano medio, contrito dalle sofferenze famigliari, il cui dolore si acuisce ancora di più quando la conoscenza del figlio fino a quel momento rigettato gli fa scoprire un mondo a cui non era abituato e al quale si abitua solo col tempo e la fatica di dover rimettere insieme i tasselli di un mosaico terribilmente amaro, singhiozzante e faticoso da ricostruire. Proprio per sottolineare la crescita interiore dei due protagonisti, entrambi toccati nel profondo dalla vita ma ancora, a proprio modo, volenterosi di combattere e sperare, la sceneggiatura lascia aperti vari silenzi che cadono tutti al momento opportuno e concentra le parole quel tanto che basta per lasciare allo spettatore il compito di riempire quei vuoti che in realtà non hanno alcunché di vuoto: semmai, la loro pienezza risiede proprio negli sguardi, nei toni di voce, nei movimenti anche minimi, nelle parole della vita quotidiana, nei desideri rimasti inappagati. Ottimo modo di raffigurare i paesaggi tetri, ombrosi e tranquilli della Germania tramite gli interni dei luoghi di cura: la plasticità della scenografia risalta all’occhio anche per la sua semplicità quasi stilizzata, e soprattutto per la rigorosa indifferenza ai problemi umani che mostra durante lo svolgimento degli eventi: l’ospedale, come anche la palestra, gli scompartimenti del treno e le panchine fuori nelle piazze, osservano il percorso di maturazione interiore dei due personaggi principali come spettatori incolori, incapaci di dare una spinta o creare un ostacolo, intenti solamente ad ospitare avvenimenti senza curarsi di come sono fatti, di come erano e di come diverranno. Il che accentua la drammaticità intimistica del film, confezionando in ultimo un prodotto appetibile ad una larga fetta di pubblico dal momento che l’acqua della vita gliela danno due attori dalla tensione drammatica infallibile (compreso il piccolo A. Rossi, una rivelazione insospettata), coadiuvati da contributi tecnici impeccabili (fra cui spicca la fotografia di Luca Bigazzi, meravigliosa nella sua luce ferma e offuscata) e da una colonna sonora che ricama, come un dito bagnato sulla pelle, l’evoluzione dei sentimenti e delle sensazioni interiori senza perdere di vista l’importanza del viaggio come mezzo di formazione, il quale costituisce pure lui un frammento di questa co-produzione italo-franco-tedesca che non va assolutamente perso e che va senz’altro analizzato nella sua disarmante veridicità. Le musiche comprendono anche un bellissimo brano del 1998 di Vasco Rossi: Quanti anni hai? In ogni caso, il regista si conferma un esaminatore attento e fin troppo metodico e scrupoloso nell’analisi delle debolezze umane, e nel dirlo mi riferisco sicuramente a problemi atavici ben più subdoli e pericolosi delle disabilità fisiche. Se Paolo non fosse come è, Gianni riuscirebbe ad amarlo con la stessa intensità e col medesimo fervore?
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iuriv
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sabato 9 agosto 2014
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realismo poco realistico
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Un padre incontra il figlio spastico solo quando questi ha quindici anni e lo porta in una clinica specializzata di Berlino che promette miracoli. Tra i due dovrà nascere un sentimento.
Amelio sceglie una storia piuttosto toccante e decide di spogliarla di tutto, presentando un film quadrato e dalla regia trasparente. La visone è caratterizzata, infatti, da una fotografia fredda, da inquadrature quasi mai fuori dai canoni e da una certa linearità di messa in scena.
Tale scelta è probabilmente giustificabile dall'intenzione del regista di mettere in campo tutta la crudezza della disabilità, non sottoponendola a filtri estetici che rischierebbero di renderla evanescente.
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Un padre incontra il figlio spastico solo quando questi ha quindici anni e lo porta in una clinica specializzata di Berlino che promette miracoli. Tra i due dovrà nascere un sentimento.
Amelio sceglie una storia piuttosto toccante e decide di spogliarla di tutto, presentando un film quadrato e dalla regia trasparente. La visone è caratterizzata, infatti, da una fotografia fredda, da inquadrature quasi mai fuori dai canoni e da una certa linearità di messa in scena.
Tale scelta è probabilmente giustificabile dall'intenzione del regista di mettere in campo tutta la crudezza della disabilità, non sottoponendola a filtri estetici che rischierebbero di renderla evanescente. Lo scopo del film non sembra infatti quelo di raccontare il mondo del giovane spastico, ma piuttosto quello di mettere in mostra il tentativo di papà Stuart nel relazionarsi con il ragazzo.
In questo gioco a togliere, Amelio evita anche digressioni, lasciando che siano i personaggi a raccontare antefatti e trame secondarie, non mostrando mai nulla e ottenendo un effetto didascalico.
Queste decisioni non sono sbagliate in quanto tali, ma devono fare i conti con quella che ne è la conseguenza più naturale: la mancanza di intrattenimento. Il film soffre di ritmi blandi e lunghe sequenze insistite, che sono utili a raccontare la storia, ma che coinvolgono forse troppo poco l'umanità dall'altra parte dello schermo. O almeno quella strandard che non è ipersensibile e non è disposta a commuoversi a ogni parola del giovane sfortunato.
Va detto che una parte importante in questo gioco la recita Stuart: l'ex Kimono D'Oro non è malaccio in generale, ma i gesti d'affetto verso il ragazzo, in cui se lo accarezza e se lo stropiccia, appaiono fin troppo caricati e in qualche situazione mi hanno messo addirittura a disagio.
Perchè nel gioco della crudezza, manca qualcosa in questo film. Quasi che ci si fosse preoccupati di non offendere nessuno, si nota (o almeno io l'ho notata) l'assenza di quel cinismo che è parte integrante della società e che emerge anche nel confronto con i disabili. Scegliendo di metterla giù così diretta, questa scelta leva quel realismo che (forse) il regista voleva donare alla pellicola e che si nota soprattutto nelle scene girate all'interno dell'ospedale.
C'è da dire che comunque il suo risultato lo porta a casa. Alla fine la storia fa breccia e riesce a conquistarsi la commozione di chi la guarda.
E vorrei anche vedere: un bambino malato e praticamente orfano.... potevano anche picchiarlo già che c'erano.
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mercoledì 18 luglio 2007
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le chiavi di cosa?
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Sento, osservo e respiro quella frase che mi rimbomba nelle orecchie e mi produce fastidiosi pensieri di vendetta; "è uno di quei film che rimangono dentro"-dicono in molti.
Cosa vuol dire "è uno di quei film che rimangono dentro?". Anche 'Natale sul Nilo', 'Fusi di testa' e imbarazzanti opere di Muccino sono film che rimangono dentro...nel senso letterale del termine..rimangono dentro in quanto terribili ricordi di orrenda espressione di come non si fa il cinema.
Fatta questa doverosa (per me) premessa (rivolta a tutti quelli a cui "i film rimangono dentro") cercherò di analizzare il film di Amelio e di analizzare le mie discordanti reazioni.
Ritengo le mie impressioni molto contradittorie, come è contradditorio questo film, riuscito a metà.
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Sento, osservo e respiro quella frase che mi rimbomba nelle orecchie e mi produce fastidiosi pensieri di vendetta; "è uno di quei film che rimangono dentro"-dicono in molti.
Cosa vuol dire "è uno di quei film che rimangono dentro?". Anche 'Natale sul Nilo', 'Fusi di testa' e imbarazzanti opere di Muccino sono film che rimangono dentro...nel senso letterale del termine..rimangono dentro in quanto terribili ricordi di orrenda espressione di come non si fa il cinema.
Fatta questa doverosa (per me) premessa (rivolta a tutti quelli a cui "i film rimangono dentro") cercherò di analizzare il film di Amelio e di analizzare le mie discordanti reazioni.
Ritengo le mie impressioni molto contradittorie, come è contradditorio questo film, riuscito a metà.
Lo sappiamo che l'handicap fisico ci intenerisce, ci fa paura, ci fa riflettere..insomma ci smuove.
Sappiamo anche che vedere recitare un bambino con gravi disfunzioni fisiche e mentali non può lasciarci indifferenti,se non siamo 'mostri di Dusseldorf' o cinici e spietati uomini di pietra.
Grande, straordinario Andrea Rossi; penso alla sofferenza che abbia provato nel vedere una telecamera addosso, nell'essere sezionato senza pietà, nel provare e riprovare scene sbagliate, nel rendersi conto, una volta di più, di non potere essere come gli altri.
E'vero, questa è la realtà e Gianni Amelio lo sa. Un regista che ha fotografato e catturato la realtà in maniera magistrale in molti altri suoi film. Qua fa lo stesso,con una differenza però sostanziale: non c'è un filtro, una velatura (scelta voluta ovviamente) tra noi e la storia che ci è presentata; non voglio pensare che sia stata una scelta razionale e furba quella di giocare con i sentimenti e la pietà del pubblico, come non posso sottrarmi a una serie di domande che mi continuano a tempestare la testa.
Ci sono momenti di alto cinema, questo è indubbio; Kim Rossi Stuart è l'attore più bravo di quella generazione, questa pellicola è una consacrazione per lui, non certo una scoperta. E'un padre che si vergogna di farsi vedere con il figlio disabile, è un uomo che ha paura di quel ragazzo così "diverso".
Amare quel ragazzino sembra essere più un atto dovuto (l'ha abbandonato appena nato perchè dopo il parto è morta la sua compagna)che un reale slancio d'amore e questa è una straordinaria scelta da parte del regista per sconfiggere il luogo comune e non cadere in facili e patetiche redenzioni. E'indispensabile spendere almeno una parola per una Charlotte Rampling priva di speranze, che alle volte si augura la morte della figlia che non riesce neanche a parlare; una donna che riesce a trasmettere il calore materno e il mal celato desiderio di far scomparire tutto nella sua vita.
Ci sono silenzi che piacciono, frasi di Andrea che quasi non si capiscono, difficoltà anche di esprimersi (l'ospedale si trova a Berlino).
C'è un'incomunicabilità di fondo che, a sua volta, lascia noi senza parole.
D'altro canto c'è un viaggio in Finlandia che sa tanto di fiaba buttata lì, c'è un padre che ritrova la voglia di ridere e lancia la stampella del figlio nel mare (adesso Andrea camminerà? non scherziamo..).
In questo ondeggiare tra cose riuscite, cose meno riuscite e cose da tralasciare si arriva al viaggio di ritorno che intraprendono padre e figlio in macchina(il momento più poetico). Andrea prima canta, poi suona il clacson, lo risuona, muove il volante, suo padre gli dice di smetterla, lui continua, continua all'infinito. Il padre si ferma a piangere.
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david
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lunedì 4 aprile 2005
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clamoroso passo falso di gianni amelio
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"Le chiavi di casa" è un film incoerente, incontrollato, sfuggito di mano al suo stesso artefice. Regia e recitazione vanno ognuna per conto proprio: l'esemplare asciuttezza dello sguardo, indurita dalla secchezza del montaggio e illividita dalla fotografia plumbea di Luca Bigazzi, contrasta violentemente con la stucchevolezza di una recitazione plateale, vistosa, sguaiata. Il rigore dell'impostazione semidocumentaristica è letteralmente disintegrato dal forte sapore di artificio che abita ogni spaesamento catatonico di Kim Rossi Stuart, ogni severo cipiglio di Charlotte Rampling, ogni battuta imboccata di Andrea Rossi. Per due terzi del film l'impietoso "primopianismo" di Amelio non lascia scampo agli attori, facendo precipitare ogni sequenza in una ricerca di intensità che sbanda, tanto involontariamente quanto inesorabilmente, in un'affettuosità artefatta, in un'emotività posticcia, in un calore affettato.
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"Le chiavi di casa" è un film incoerente, incontrollato, sfuggito di mano al suo stesso artefice. Regia e recitazione vanno ognuna per conto proprio: l'esemplare asciuttezza dello sguardo, indurita dalla secchezza del montaggio e illividita dalla fotografia plumbea di Luca Bigazzi, contrasta violentemente con la stucchevolezza di una recitazione plateale, vistosa, sguaiata. Il rigore dell'impostazione semidocumentaristica è letteralmente disintegrato dal forte sapore di artificio che abita ogni spaesamento catatonico di Kim Rossi Stuart, ogni severo cipiglio di Charlotte Rampling, ogni battuta imboccata di Andrea Rossi. Per due terzi del film l'impietoso "primopianismo" di Amelio non lascia scampo agli attori, facendo precipitare ogni sequenza in una ricerca di intensità che sbanda, tanto involontariamente quanto inesorabilmente, in un'affettuosità artefatta, in un'emotività posticcia, in un calore affettato. Il sentimento paterno deraglia immancabilmente nel paternalismo e un reale contatto tra i due corpi, per quanto sempre attorcigliati, non si verifica mai, comunicando una sgradevole sensazione di estraneità sul set. Il viaggio in Norvegia respira maggiormente, allargandosi la scala dell'inquadratura e la fotografia di Bigazzi indovinando toni cinerei di grande suggestione atmosferica. Ma il finale, versione riveduta e (s)corretta di quello assai più trattenuto e sassoso de "Il ladro di bambini", getta nuovamente - e definitivamente - sulla pellicola la luce sinistra dell'inautenticità, soltanto in parte riscattata dai titoli di coda, che valgono da soli più di tutte le bobine precedenti. Senz'altro la cosa migliore del film, insieme al suono in presa diretta.
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