Roberto Nepoti
La Repubblica
Tra il 1923 e il '35, il romanzo di William M. Thackeray fu portato sullo schermo tre volte; in tutte le storie del cinema, l'ultima versione segna la data di nascita ufficiale del film a colori. Il lungo silenzio seguito a tanta fortuna si spiega, probabilmente, con un malinteso senso di "antichità": come interessare il pubblico alle avventure di una bella arrampicatrice sociale che, al tempo delle guerre napoleoniche, scala a colpi di fascino e sensualità l'alta società britannica, ermeticamente sbarrata a chi non possedeva sangue blu, un mucchio di sterline o, meglio, le due cose assieme?
Becky Sharp debutta come governante di campagna, arriva a Londra, sposa un nobile diseredato per averla scelta. Ma non si arrende. Per trovar posto presso i ricchi e potenti, accetta la protezione - non disinteressata - del cinico marchese di Steyne. Parallele, si svolgono le vicende della sua migliore amica, Amelia, perdutamente innamorata di un capitano che cadrà a Waterloo e amata, in silenzio, da un altro ufficiale. Il timore dell'anacronismo è ingiustificato: le storie, dipende da come le racconti. Mira Nair ha scelto una via bizzarra, con incongruenze e difetti eppure non priva di una sua grandiosità.
Pur prendendosi ampie libertà sul testo letterario, ha dimostrato come lei - indiana con studi ad Harvard - sia perfettamente in grado di orchestrare un filmone dalla narrazione classica, con inquadrature a larga-scala e tempi romanzeschi alla "Via col vento".
Lungo due ore e un quarto, La fiera delle vanità è fastoso e mai noioso; anche se soffre della malattia endemica di tante trasposizioni: l'affastellarsi degli eventi nella seconda parte, col rischio di "telefonarli". Già vincitrice a Venezia 2001 per "Monsoon wedding", la Nair sa coordinare una quantità di personaggi senza perderne le fila e servendosi degli attori giusti al posto giusto: a cominciare da Reese Witherspoon, che passa benissimo dalla commedia giovanilistica ("La rivincita delle bionde") a un character di alto profilo come Becky.
Nel contempo, Mira torna in India ogni volta che può, ammannendoci balletti indiani, picnic tematici, trasferte di ufficiali e gran finale vagamente bollywoodiano. Contrappone l'Inghilterra grigia, piovosa e classista, alle immagini mitizzanti di un'India solare, coloratissima e gioiosa (dove sono finite le caste?); assai più vicina agli stereotipi del colonialismo romantico che alla realtà. Ma l'innesto non funziona e gli inserti esotici restano come corpi estranei, piantati in un solido kolossal vecchio-stile.
Da La Repubblica, 11 marzo 2005
di Roberto Nepoti, 11 marzo 2005