Il segreto di Vera Drake

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Natalia Aspesi

La Repubblica

Anche in Italia ogni tanto salta su un vescovo, un ministro, un'associazione, per proporre la revisione della legge che consente l'interruzione di gravidanza: sono passati 26 anni da quando da noi è stata approvata, cancellando la piaga dell'aborto clandestino, e ancora in tanti non si danno pace, per ragioni religiose o etiche, e si ridiscute di embrione e di feto, di vita e di morte, di Bene e di Male, di peccato e di reato, di scelta e di colpa. Un film come Il segreto di Vera Drake dell'inglese Mike Leigh, (Palma d'oro per Segreti e bugie nel 1996) in concorso, rende questi discorsi, se non fatui, almeno smemorati. Perché ci riporta in quell'antico, doloroso e muto mondo femminile in cui milioni di donne sfidavano la legge per liberarsi di un concepimento indesiderato: e mettevano in pericolo la loro vita ricorrendo a quelle che da noi si chiamavano mammane o praticone, e sui giornali, dove la parola aborto non poteva comparire, "fabbricanti d'angeli".
Cliniche private e stimati chirurghi si arricchivano con la clientela benestante, ogni tanto c'era qualche intrepida irruzione della polizia che interrompeva per un po’una fiorente industria impossibile da eliminare: tempi in cui essere donna voleva dire essere anche una potenziale criminale assassina. Dice il regista: "In tutto il mondo, in tempi di riflusso ideologico, quando si ha più paura del futuro e si cerca un capro espiatorio all'insicurezza diffusa, si riapre il dilemma sulla liceità legislativa dell'aborto, al di là del giudizio morale che riguarda l'individuo. Anche in Inghilterra, dove non è più reato dal 1967, c'è una minoranza, come nel resto dell'Europa, come negli Stati Uniti, che ciclicamente mette in dubbio questo diritto, un impossibile ritorno al passato. Ed è quel passato che il mio film rievoca".
Quartiere proletario alla periferia di Londra nel 1950: Vera Drake è una donnina di mezza età dalla giornata piena: fa la domestica a ore in case borghesi piene di specchi e ottoni da lucidare, dove antipatiche signore ben pettinate sprofondate nei divani leggono i loro giornaletti. Dà una mano al vicino paralitico, soccorre la vecchia madre che non si muove dal letto, fa la spesa, quando torna nel suo angusto appartamento rigoverna e prepara la cena. Il marito reduce di guerra fa il meccanico, il figlio giovanotto lavora da un sarto e baratta calze di nailon italiane con pacchetti di sigarette, la figlia bruttina fa l'operaia, e chissà se la sposerà l'omino solitario che Vera invita a cena. Non c'è povertà ma ci sono le ristrettezze del dopoguerra, c'è serenità e amore attorno a lei che lesta e sorridente, canticchiando, pare passare la vita a preparare, offrire, bere tazze di tè. Invece non è così. Vera ha un'esistenza parallela che la famiglia non conosce: con un pezzo di sapone, una grattugia da formaggio che le serve per sminuzzarlo, una pompetta di gomma e una siringa, pratica aborti clandestini a domicilio. Con maestria, sollecitudine, tenerezza.
"Gli aborti erano clandestini, quindi non ci sono cifre certe: ma si sa che non esistendo contraccettivi, una moltitudine di donne vi ricorreva, certo molte di più di quelle che oggi si avvalgono della legge per l'interruzione di gravidanza". L'operosa Vera è infatti molto indaffarata: via le mutandine, distenditi sul letto, apri le gambe, rilassati. Ragazze violentate, donne già cariche di figli, un'umanità femminile di cui gli uomini non vogliono sapere, spaventata, disperata, piena di vergogna, di sensi di colpa, in solitudine amara, eppure decisa, tutto ma non quel figlio, non quella rovina. Certo, dice Leigh, "la legge consentiva una scappatoia, (anche in Italia) se si dimostrava che la gravidanza era mentalmente e fisicamente pericolosa, ma convincere uno psichiatra era molto costoso, solo le donne borghesi potevano ricorrervi". 150 sterline paga nel film la ragazza di buona famiglia violentata dall'amichetto, e quel segreto la rende forte davanti all'odiosa indifferenza della madre: 2 ghinee pagano le ragazze alla mezzana, che risarcirà Vera solo facendole lo sconto sullo zucchero e il tè del mercato nero. Vera non pronuncia mai quella parola, aborto. Quando una ragazza rischia di morire e l'arrestano dice: "aiuto le ragazze in difficoltà. Se non ce la fanno ad andare avanti. Perché nessuno gli dà una mano. Per farle tornare a sanguinare". Davvero per generosità, per altruismo, per solidarietà femminile. In prigione incontrerà altre tre "colleghe": usavano il ferro da calza, qualche volta gli è andata male e le donne sono morte. "Erano centinaia le donne che come Vera praticavano aborti" dice Leigh "in una società che si rifiutava di prenderne atto, e in cui gli uomini, i padri, i mariti, gli amanti, se ne lavavano le mani. Era solo un affare, criminoso, di donne".
Un affare di donne è il titolo di un grande film di Claude Chabrol dato alla Mostra di Venezia del 1988, che premiò come migliore attrice la protagonista Isabelle Huppert. Raccontava con gelida passione la vera storia di Marie Latour, che nella Francia occupata dai nazisti nel luglio del 1943 finì sulla ghigliottina per aver praticato aborti clandestini. Imelda Staunton, un'attrice televisiva quarantenne a noi sconosciuta, è una magnifica Vera, che, invecchiata, col suo decoroso cappellino, la sporta della spesa, il grembiule da casa, i gesti dell'amore e della laboriosità, sa spezzare il cuore quando la sua vita e quella della sua famiglia va in pezzi. Spesso i film d'epoca sono visivamente fastidiosi, ma qui i vicoli fangosi di Londra, le case di umidi mattoni grigi, le cucine scrostate, le tappezzerie annerite, i caffè eleganti, i salotti alla moda non s'impongono sulla storia né su tutti gli attori genialmente scelti.
Da La Repubblica, 6 settembre 2004)


di Natalia Aspesi, 6 settembre 2004)

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