Radiofreccia

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Roberto Nepoti

La Repubblica

Se troppi dei film italiani passati per Venezia non hanno poi incontrato il favore del pubblico nelle sale, si profila una sorte molto diversa per Radiofreccia, esordio registico (o, come preferisce dire lui, "unico film") di Luciano Ligabue presentato con successo in chiusura della Mostra. Radiofreccia esce ed è già un "caso". Il divieto ai minori di 14 anni, poi tempestivamente ritirato, ha stupito Ligabue e il produttore Procacci; proiettato al Salone della Musica di Torino, il film ha richiamato migliaia di giovani. Fa piacere dire che, al di là dei rumori della cronaca, si tratta di un debutto sorprendentemente buono: per il tono sincero, il modo di raccontare fluido, le scelte felici del cast e di una colonna sonora - da David Bowie ai Weather Report, da Lou Reed a Iggy Pop - usata in funzione significante, non solo atmosferica (su queste pagine, Gino Castaldo lo ha definito "il primo vero film rock italiano"). Radiofreccia è girato on location a Correggio, il paese di Ligabue, tra il bar gestito da Adolfo (Francesco Guccini), punto di ritrovo di Freccia e dei suoi amici, la stazione radio e altri luoghi canonici della vita di un borgo. Quasi senza parere, ma con sicuro senso della storia sociale recente, il neo-regista ci racconta un periodo di transizione epocale, che introdusse rivoluzioni nel costume - quella sessuale - e nella comunicazione, ma diffuse anche flagelli come la droga, resa micidiale dal mix di tabù e disinformazione che la circondava. Ligabue, che ha adattato il film dalla propria raccolta di racconti Fuori e dentro il borgo, sceglie di sparire dietro la storia che, pur con momenti francamente divertenti, lascia un persistente sapore di amaro (nel suo disperato squallore, la scena incriminata in cui Freccia e la ragazza si bucano è l'esatto opposto di una istigazione a drogarsi). E mette a segno un bel colpo, che nel nostro cinema non riesce a molti: rappresenta la vita dei giovani, la provincia, la droga senza mai cadere nel giovanilismo, nel provincialismo, nel patetismo.
Da La Repubblica, 16 ottobre 1998


di Roberto Nepoti, 16 ottobre 1998

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