Gli intrighi del potere - Nixon

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Un film di Oliver Stone. Con Ed Harris, James Woods, Larry Hagman, Anthony Hopkins, Paul Sorvino.
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Titolo originale Nixon. Biografico, durata 192 min. - USA 1995. MYMONETRO Gli intrighi del potere - Nixon * * * - - valutazione media: 3,42 su -1 recensioni di critica, pubblico e dizionari. Acquista »
   
   
   

Irene Bignardi

La Repubblica

A un certo punto di Il dormiglione di Woody Allen un gruppo di antropologi del ventunesimo secolo visiona dei nastri provenienti dal 1970, e non riesce a capire di che parlino fino a che Woody Allen non gli spiega che si tratta del presidente Nixon, aggiungendo che notoriamente “quando lasciava la Casa Bianca, il Servizio Segreto controllava l’argenteria”. Insomma, dal 1973 - e cioè praticamente in contemporanea con gli eventi - fino a Forrest Gump (1994), almeno per quella forma di storiografia popolare e invasiva che è il cinema, la figura di Richard Nixon è rimasta consegnata alla caricatura più che alla storia: Tricky Dick, Dick l’imbroglione, il presidente del Watergate che spediva i suoi spioni nel campo nemico.
Anche se la famiglia ha protestato, anche se le reazioni sul territorio americano sono state controverse, il Nixon che esce dal film di Oliver Stone (in Italia, chissà per quale balzana levata di ingegno, reintitolato Gli intrighi del potere) è invece un grande personaggio drammatico: contorto, tormentato, contraddittorio, ma affascinante, complesso, mirante. Dando ragione una volta di più a Nixon, il quale im risposta a Kissinger che, il giorno dell’addio alla Casa Bianca, gli diceva consolatorio “La storia ti tratterà bene”, rispose: “Dipende da chi scriverà la storia”. Ed è curioso che a mettere in scena questa rilettura così contrastata e complessa della figura del solo presidente degli Stati Uniti “dimissionario” sia stato proprio Oliver Stone, un regista - e uno “storiografo” cinematografico – che coltiva con passione i suoi rancori, tra cui quello per aver bruciato una fetta della sua giovinezza a combattere in Vietnam prima che Nixon si decidesse a studiare come arginare il disastro.
L’obiezione principale mossa al film in America è proprio che di “storia” non si tratterebbe, nonostante il lavoro preparatorio di anni documentato dal volume di quasi seicento pagine pubblicato da Stone (sceneggiatura, firmata con lui da Stephen J. Rivele e Christopher Wilkinson, documenti e trascrizioni del caso Watergate, saggi di John di Howard Hunt e altri). Ma si sa da un pezzo che la storia viene continuamente scritta e riscritta dagli studiosi, figurarsi se questa libertà non vale per un regista che qui attraverso Nixon, non si limita a raccontare solo un personaggio, ma un’epoca, un modo di governare, una concezione della politica. E se dai tempi di Omero e di Shakespeare poeti e drammaturghi hanno piegato la rappresentazione dei fatti storici secondo la propria logica, si può perdonare al loro lontanissimo epigono qualche silenzio o qualche invenzione, visto che il risultato ha l’ambizione, la potenza, la forza di un grande affresco storico?
Affresco che, intendiamoci, non è certo immune da difetti. I flashback sulla povera infanzia quacchera di Nixon dominata dalla madre Mary Steenburger, per esempio, inutilmente minuziosi e crudeli. Alcuni incontri storici (con Mao, con Breznev), ridotti a un teatrino di sosia. Gli scarti ingiustificati dal bianco e nero al colore. Ma in tre ore di un racconto quasi sempre controllato, austero, intenso, Stone ci accompagna con il piglio di un grande drammaturgo attraverso quarant’anni di storia, dal maccartismo alla scena - documentaria - dei solenni funerali di stato dell’ex presidente. Anche se inevitabilmente si concentra sulla crisi del Watergate: e giustamente, perché è quello il trauma per cui la nazione americana perse la sua innocenza e la sua fiducia di fronte alla realtà di un’amministrazione profondamente corrotta.
“Quando guardano te, vedono quello che vorrebbero essere. Quando guardano me, vedono quello che sono,” dice il Nixon di Stone rivolgendosi al ritratto di John Fitzgerald Kennedy, che con il fratello Bob è stato l’oggetto della sua invidia e che con i suoi stessi fratelli, prematuramente morti, sente, nella lettura “psicoanalitica»’ di Stone, come le ombre che con la loro tragedia personale hanno consentito la sua scalata al potere.
Rinunciando alla sua cinestoriografia concitata e rozza, Stone opta questa volta per un’appassionata ambiguità, per un ritratto tutto chiaroscuri, grandezze e debolezze. E Anthony Hopkins - che non si prova neanche per un attimo a imitare il vero Nixon ma inventa un suo personaggio nevrotico, insicuro, inquieto, pieno di orgoglio e di bassezze, di tenerezza e di paure - è il meraviglioso interprete, in mezzo a un cast tutto efficace, di una tragedia dell’ambizione e del potere che va al di là degli annali della storia. E mi sembra che il tiepido successo del film -sintetizzato dalla sua esclusione dagli Oscar importanti e dalla sconfitta di Hopkins - parli soprattutto della voglia americana di dimenticare.
Da Irene Bignardi, Il declino dell’impero americano, Feltrinelli, Milano, 1996


di Irene Bignardi, 1996

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