I protagonisti

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Un film di Robert Altman. Con Lyle Lovett, Brion James, Vincent D'Onofrio, Sydney Pollack, Lily Tomlin.
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Titolo originale The Player. Drammatico, Ratings: Kids+16, durata 124 min. - USA 1992. - Penta Distribuzione uscita sabato 14 novembre 1992. MYMONETRO I protagonisti * * * 1/2 - valutazione media: 3,93 su -1 recensioni di critica, pubblico e dizionari.
   
   
   

Irene Bignardi

La Repubblica

La storia “attorno” a I protagonisti è interessante almeno quanto la storia “nel” film. Beninteso in termini di etologia del mondo del cinema.
Riassumiamo la vicenda in venticinque parole, come Altman stesso raccomanda si faccia per ogni buon soggetto. “Regista già celebre e osannato, poi caduto in disgrazia, gira un film sulle perversioni del sistema holl~’woodiano, e Hollywood, oltre che il pubblico, lo osanna.’ Non c’è dubbio infatti che, dei tanti film sul mondo del cinema, alcuni anche di rara ferocia (ricordate S.O.B. di Edwards?), I protagonisti sia uno dei più cattivi. Nessuno si salva - mascalzoni, presuntuosi, vanesi, presenzialisti, assassini, ricattatori, superficiali - a eccezione del personaggio di Greta Scacchi. Forse perché, come la signora dichiara, non va mai al cinema. (“E perché?” le chiede il protagonista maschile, Tim Robbins. “Perché la vita è troppo corta.”) I protagonisti, tanto vale dirlo subito, non è il capolavoro di Altman. Non siamo, insomma, al film-manifesto di un decennio come fu lo straordinario e lungimirante Nashville per gli agitati anni settanta. Ma è un film scritto mirabilmente - da Michael Tolkin, autore anche del romanzo omonimo, Il giocatore. È costruito astutamente attorno a un delitto e al tentativo di coprirlo, ma non diventa mai un film di genere. È interpretato da un cast sterminato di star e di personalità hollywoodiane che si sono prestate con divertimento - e a paga sindacale - al gioco dell’autosatira. È infarcito di una mai gratuita sapienza cinefila che farà la gioia dei cinefili in sala ma, grazie all’impianto thriller e al tono da commedia, non darà fastidio ai non appartenenti alla chiesa del cinema. È diretto con una sapienza dei tempi e dei modi che il cinema di plastica e acciaio dei rivali hollywoodiani di Altman dovrebbe invidiargli (così come bisognerebbe studiare obbligatoriamente nelle scuole di cinema gli otto minuti del miracoloso - ed esilarante piano sequenza iniziale). E la storia, secondo la succitata regola altmaniana, si può riassumere in venticinque parole, quante ne concedono appunto i mogul hollywoodiani del film agli sceneggiatori che vengono a proporre le loro idee: “Produttore, minacciato di morte da autore frustrato, lo cerca, lo uccide, si mette con la sua donna... e scopre che a perseguitarlo era un altro”.
Il produttore è un Tim Robbins con l’aria del perfetto executive che beve solo acqua minerale e invita le donne a week-end salutisti; la ragazza è una soave Greta Scacchi, incapace di piangere un morto per più di un pomeriggio (la vita è troppo breve anche per i rimpianti?). Il morto è Vincent D’Onofrio, sceneggiatore incarognito dall’insuccesso, che ha il torto di venerare Ladri di biciclette e di volere fare film senza sesso, violenza, star e lieto fine. E attorno a loro, attorno a questo autodafé al vetriolo in cui Altman confessa anche se stesso (“Anch’io sono così,” sostiene, “magari amando altre cose, ma accettando le stesse regole del sistema”) si muovono in parti grandi o in pure comparsate vecchi volti altmaniani e star di oggi: da Lily Tomlin a Cher, da Elliot Gould a Susan Sarandon, dalla sceneggiatrice di Nashville, Joan Tewkesbury, a Buck Henry, sceneggiatore di Il laureato, che va a proporre un seguito del suo film, naturalmente con Julia Roberts nel ruolo della figlia del laureato.
E, come è nei voti di tutti i produttori “nel film” e nella vita, c’è anche Julia Roberts, in un’esilarante sequenza di metacinema, uno dei tanti happy ending che la legge del Nuovo Cinema impone: arriva Bruce Willis e, all’ultimo minuto, strappa l’innocente alla camera a gas, portandola via tra le braccia. Chiunque abbia qualche dimestichezza con il mondo del cinema troverà la foto di gruppo di una somiglianza imbarazzante. Chi non lo conosce, si potrà godere la brillante scansione della commedia altmaniana - cattiva, ironica, perfettamente circolare e conclusa - e pensare, come diceva il Bardo (e anche Elvis Presley), che tutto il mondo è un palcoscenico. Ma che il mondo del cinema non è poi diverso da tutti gli altri mondi dove i compromessi sono all’ordine del giorno, si vende l’anima al diavolo del successo facile, e a sparire di scena non sono quasi mai i colpevoli.
Da Irene Bignardi, Il declino dell’impero americano, Feltrinelli, Milano, 1996


di Irene Bignardi, 1996

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