Barton Fink - È successo a Hollywood

Un film di Joel Coen, Ethan Coen. Con Michael Lerner, John Turturro, John Goodman, Judy Davis.
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Drammatico, durata 114 min. - USA 1991. - Filmauro uscita martedì 22 aprile 1997. MYMONETRO Barton Fink - È successo a Hollywood * * * 1/2 - valutazione media: 3,87 su -1 recensioni di critica, pubblico e dizionari.
   
   
   

Irene Bignardi

La Repubblica

Rovinare l’allegria di una festa è cosa da maleducati. Ma forse qualche riserva da parte di una voce sola e solitaria, per dire che il presepe non le piace, non farà poi tanta
differenza. Anche perché il presepe le piace, ma... Ma Barton Fink, quarto film dei sorprendenti e geniali fratelli Coen, uno produttore e uno regista, ambedue ugualmente impegnati nel processo creativo, secondo regole ancora più misteriose di quelle che governano il cinema dei fratelli Taviani; Barton Fink, premiato con una pioggia di riconoscimenti a Cannes dalla giuria presieduta intelligentemente, partigianamente e appassionatamente da Roman Polanski, che ai film dei Coen ha fatto attribuire la Palma d’oro, il premio per la miglior regia, il premio per il miglior attore John Turturro (che, a ben vedere, tanto migliore era in Jungle Fever); Barton Fink, immediatamente trasformatosi prima ancora dello sviluppo del culto in un cult movie, è un film intelligente, brillante, geniale, innegabilmente diverso e originale, che però non convince fino in fondo, non è il miglior film dei Coen, non è un film totalmente risolto. Premesso questo, si possono allacciare le cinture e abbandonarsi a questo gioco cinematografico di smagliante eleganza e intelligenza.
1941, Barton Fink - John Turturro - fa lo scrittore di teatro a New York. Alla maniera di Clifford Odets, è un drammaturgo di sinistra, i suoi soggetti preferiti sono i lavoratori, l’impegno sociale è la sua fede. Ma il successo e il denaro bussano alla sua porta sotto forma della proposta di recarsi a Hollywood a scrivere un film: come Fitzgerald, come Chandier, come Faulkner, anche Barton Fink si lascia tentare. Un terrificante “mogul” hollywoodiano, cafonissimo e arrogante, gli rifila da scrivere un film sul wrestling per Wallace Beery, e lo abbandona solo e vittima di un improvvisa “impotentia scribendi”, che è il rifiuto segreto a svendere la sua penna (anzi, la sua macchina per scrivere), in un fatiscente hotel dove il calore scolla la carta dai muri, i muri lasciano filtrare ogni suono, lo squallore è totale, le zanzare molto aggressive.
Il solo essere umano con cui Barton Fink riesce a comunicare è, all’apparenza, un rappresentante di quella classe lavoratrice che ha immortalato nelle sue commedie, il sedicente commesso viaggiatore Charlie, tutto cordialità ed estroversione (lo strepitoso John Goodman), e mentre notte dopo notte guarda ipnotizzato l’unica riga che il blocco dello scrivano gli ha consentito di battere sulla sua Remington (ricordate il dramma analogo dello scrittore in crisi Jack Nicholson in Shining? Il sonno della creatività genera mostri) gli capita di incontrare uno sceneggiatore alcolista un po’ Fitzgerald un po’ Faulkner, che gli fa immaginare giorni e giorni di un futuro da prigioniero nella macchina del cinema.
Per maggior identificazione Barton Fink si porta a letto, nella sua stamberga, la di lui segretariaamante (una bravissima, sofisticata Judy Davis). Si risveglierà con lei in un bagno di sangue che apre la strada a un imprevedibile risvolto della storia e dell’umore narrativo del film.
Abilissimi nei ritmi della commedia come nella ricostruzione di un’atmosfera “nera”, inquietante e angosciosa, i due Coen - Joel, il ragazzone con la coda di cavallo che è ufficialmente il regista; Ethan, il piccolino con gli occhiali, che è ufficialmente il produttore - giocano con eleganza e mestiere il loro gioco autobiografico e autocritico (come si fa a non vedere nell’incubo della pagina bianca di Barton Fink, vendutosi a Hollywood, un esorcismo di quello che potrebbe significare per gli indipendenti Coen passare sotto l’ala protettrice delle majors?). E mentre si divertono a mettere in scena un giallo-nero senza offrirne una soluzione “realistica” e una spiegazione plausibile (proprio come succede, guarda caso, nel mondo reale) si concedono il piacere di ironizzare su Hollywood, sull’impegno, sull’illusione dell’artista di conoscere il mondo di cui si occupa, si sbizzarriscono in ardimenti stilistici provocatori (dopo che Barton Fink ha fatto l’amore con Audrey, la macchina da presa “zooma” su un lavandino e va a finire dentro il tubo di scarico...), si prendono il gusto di stupire con continue sorprese che escono dalla logica dei generi.
Ma queste sorprese sono il makeup elegante di una fondamentale incertezza di direzione, la struttura è meno precisa e perfetta che nei film precedenti le emozioni più filtrate e rimosse. Ammirevole e godibile, Barton Fink -per chi ha ammirato i Coen dai tempi non tanto lontani di Blood Simple (1984) con la sua autentica forza violenza passione travestite da stile - e una cambiale o una promessa per un film perfetto prossimo venturo che fonda le due facce dei due Coen.
Da Irene Bignardi, Il declino dell’impero americano, Feltrinelli, Milano, 1996


di Irene Bignardi, 1996

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