Vittime di guerra

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Irene Bignardi

La Repubblica

Brian De Palma non è mai stato in Vietnam, come ha avuto ampiamente occasione di raccontare da quando il suo film Vittime di guerra è uscito sugli schermi americani, accolto da imprevedibili consensi critici (persino della crudele Pauline Kael). All’epoca in cui la guerra era in corso, De Palma era studente, ed è rimasto a casa grazie a un certificato medico che lo dichiarava asmatico. “Quello che so di questa guerra,” ha dichiarato a “Le Monde”, “è quello che ho imparato da Oliver Stone, da David Rabe, dagli altri. Che hanno in comune nello sguardo qualcosa che non c è nel mio.
Affermazione onesta e importante, ma forse irrilevante. Il problema, con le guerre sporche o meno sporche, non è di esserci stati, o buona parte del grande cinema di guerra non sarebbe mai stato fatto. Non si tratta (tanto per citare due vette in materia) di confrontare l’esperienza in diretta di John Huston o l’orrore in differita di Stanley Kubrick. Nel caso di De Palma e del suo film conta (ed è determinante) il complesso intreccio di temi, di sensibilità e di ossessioni che percorrono tutta la sua carriera di cineasta, dai tempi quasi movimentisti di Hi, Mom! (1970), alla stagione in cui è sembrato il nipotino più morboso e abile di Hitchcock (scatenando insieme le ire femministe per il trattamento non molto tenero riservato ai personaggi femminili), alla stagione western-gangsteristica di Gli intoccabili e al suo straordinario scontro atemporale tra Buoni e Cattivi.
Di questa carriera Vittime di guerra è in qualche modo l’atto di scusa (basti vedere il pudore con cui tratta lo stupro) e, insieme, il tentativo di normalizzazione di una ferita aperta e bruciante, che De Palma vuole riportare al tema più generale dell’eroismo personale. Durante i primi dieci minuti del film lo spettatore rischia di pensare di essere finito in un film fascistoide, che esalta i più equivoci valori del patriottismo, dell’imperialismo e del razzismo anti musi gialli. É, per così dire, un trucco dialettico. E diversissimo è il discorso (esplicito) e il tono scelto da De Palma per il nucleo centrale della storia. Che è una storia vera, scoperta dal regista in un articolo del 1969, di Daniel Lang, sul “New Yorker” (da cui è stato tratto anche un piccolo libro), diventata una sceneggiatura a opera di David Rabe (autore anche di Streamers), e tradotta in film solo dopo il successo di Gli intoccabili e l’apertura del filone Vietnam.
Un distaccamento di cinque uomini viene spedito in ricognizione al comando di un giovane tenente, già esperto della guerra vietnamita (Sean Penn). E per suo ordine viene rapita una ragazza vietnamita, che tutti, meno il soldato Erikson (Michael J. Fox), violentano e malmenano, che Erikson tenta invano di far fuggire e che viene uccisa a sangue freddo. E anche Erikson rischia di essere ucciso quando tenterà di denunciare l’accaduto. Ma ci riesce, e i quattro commilitoni sono condannati a pene che, sempre più generoso della realtà, il film ingigantisce (i veri colpevoli se la sono cavata con soli cinque anni).
Paradossalmente, nonostante gli elicotteri e i musi gialli, le gallerie vietcong e i villaggi di capanne, nel film c’è poco Vietnam. L’episodio raccontato da Lang ha toccato la fantasia da moralista nero di Brian De Palma, suggerendogli da una parte la possibilità di narrare una vicenda horror del reale, dall’altra di riaffermare ancora una volta le qualità di coraggio e dirittura di un tranquillo americano. Che è il povero, scolorito Michael J. Fox, un Audie Murphy di una guerra priva delle belle ragioni chiare di quelle di un tempo, che non sa distinguere gli amici dai nemici, convinto che la vicinanza della morte non autorizzi a comportarsi, come dice la filosofia spicciola dell’esperienza, come se nulla importasse, ma come se tutto importasse di più. Alla sua eccessiva ma non impossibile semplicità si contrappone uno Sean Penn scatenato e frenetico, tanto coraggioso fisicamente quanto psicologica-mente depravato, convinto che il mitra sia un divertimento e il suo pene un’arma. Dallo scontro tra i due personaggi, tra l’innocenza di Fox e l’ordine militare che Fox turba e sconvolge con la sua denuncia degli orrori di cui è stato testimone, De Palma trae più un’allegoria sulla necessità del coraggio che non un film su una tragedia generazionale e sui disvalori della guerra. Con tutti i rischi insiti nelle allegorie, compreso quello di dover rappresentare i caratteri più grandi che in natura, rischiando a volte la semplificazione grottesca: come nel caso del feroce caporale, stravolto nella sua cattiveria tanto da risultare ridicolo. De Palma per una volta ha rinunciato ai suoi preziosismi e ai suoi virtuosismi più evidenti per orchestrare con grande apparente semplicità una storia esemplare. Ma trasmette orrore e non pathos, sdegno e non partecipazione, retorica più che una revisione delle ideologie e delle cause che hanno portato a quell’orrore. Ed è quasi imbarazzante il finale. Erikson, che come il protagonista della storia vera vive nascosto sotto falso nome per sfuggire alla vendetta dei suoi commilitoni condannati per la sua denuncia, anni dopo il processo (il giorno delle dimissioni di Nixon, per la precisione) crede di riconoscere in un vagone della metropolitana di San Francisco una sosia della ragazza vietnamita vittima della tragedia. E stato solo un brutto sogno, gli dice lei, vedendolo sconvolto. Un brutto sogno per Erikson o per l’America? Dopo aver celebrato il coraggio dell’uomo qualunque, De Palma, con uno scivolone retorico, cerca forse di dire che è tempo di dimenticare, per la buona pace di tutti?
Da Irene Bignardi, Il declino dell’impero americano, Feltrinelli, Milano, 1996


di Irene Bignardi, 1996

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